"Chi dice che è impossibile non dovrebbe disturbare chi ce la sta facendo" – Albert Einstein.

SOCIETA’ ITALIANA DI NEUROPSICHIATRIA DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA LINEE GUIDA PER L’AUTISMO RACCOMANDAZIONI TECNICHE-OPERATIVE PER I SERVIZI DI NEUROPSICHIATRIA DELL’ETA’ EVOLUTIVA

COORDINATORE GABRIEL LEVI (ROMA)
ESTENSORI: PAOLA BERNABEI (ROMA), , ALESSANDRO FROLLI (NAPOLI), SERENELLA GRITTANI (RIMINI),
BRUNA MAZZONCINI (ROMA), ROBERTO MILITERNI (NAPOLI), FRANCO NARDOCCI (RIMINI).
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INDICE
Premessa pag. 3
LINEE GUIDA PER LA DIAGNOSI E LA VALUTAZIONE pag. 9
I. Criteri Diagnostici pag. 9
I.1. Suggerimenti Clinici pag. 11
I.2. Strumenti Diagnostici pag. 20
II. La Valutazione Clinica Globale pag. 24
II.1. Incontri dedicati ai genitori pag. 24
II.2. Incontri dedicati al bambino pag. 27
III. Le Indagini Strumentali e di Laboratorio pag. 32
IV. La Diagnosi Differenziale pag. 33
V. La Restituzione pag. 36
LINEE GUIDA PER LO SCREENING pag. 38
I. Età di Esordio dell’Autismo pag. 38
II. La Sorveglianza sullo Sviluppo pag. 39
III. Invio ai Servizi di NPI pag. 42
LINEE GUIDA PER IL TRATTAMENTO pag. 45
I. Considerazioni Generali pag. 45
II. Il Panorama Internazionale pag. 46
II.1. Le Strategie di Intervento pag. 46
II.2. I Modelli di Presa in Carico pag. 49
III. Suggerimenti Operativi per i Servizi di NPI pag. 52
III.1. Età Prescolare pag. 54
III.2. Età Scolare pag. 63
III.3. Età Adolescenziale pag. 69
IV. Farmacoterapia pag. 70
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PREMESSA
Le conoscenze in merito al disturbo autistico si sono modificate in modo drammatico nelle
ultime due decadi: il dibattito scientifico e culturale in tema di autismo si è sviluppato molto
sia in termini di nuove acquisizioni, che di collaborazione e confronto tra Università, Servizi,
Istituzioni e Famiglie, che su questa grave patologia tendono a finalizzare le loro iniziative.
Tuttavia, a 60 anni dalla sua individuazione da parte di Leo Kanner (1943), persistono ancora
notevoli incertezze in termini di eziologia, elementi caratterizzanti il quadro clinico, confini
nosografici con sindromi simili, diagnosi, presa in carico, evoluzione a lungo termine.
In considerazione della complessità dell’argomento, per superare il disorientamento degli
operatori coinvolti nella diagnosi e nella formulazione del progetto terapeutico ed evitare che
ciò si ripercuota negativamente sui genitori e sulla tempestività ed efficacia del trattamento, è
emersa negli ultimi tempi da parte della Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile e
Adolescenziale l’esigenza di elaborare delle Linee Guida condivisibili sul territorio nazionale.
Le Linee Guida, in generale, consistono in una serie d’indicazioni, raccomandazioni e/o
suggerimenti, che si pongono come punti di riferimento per genitori e/od operatori di vario
livello (Medici di famiglia, Pediatri di base, Neuropsichiatri Infantili, Psicologi, Terapisti,
Educatori ecc.). Tali indicazioni, raccomandazioni e/o suggerimenti sono ricavati facendo
riferimento alla letteratura internazionale e possono riguardare uno specifico aspetto di una
situazione patologica o per contro aspetti più generali.
Le Linee Guida rappresentano inoltre dei parametri di riferimento temporanei, destinati ad
essere periodicamente modificati e aggiornati, sulla base dei progressi tecnologici e
dell’avanzamento delle conoscenze scientifiche disponibili sull’argomento.
I parametri su cui si basa il presente lavoro sono rappresentati insieme da:
♦ una revisione delle proposte internazionali in tema di Linee Guida per l’Autismo e
una sintesi delle raccomandazioni da esse emerse;
♦ una valutazione della letteratura nazionale e internazionale recente, rispetto alla
quale sono stati presi in considerazione studi caratterizzati da un forte rigore
metodologico;
♦ una elaborazione dei contributi di professionisti che attualmente operano in Italia,
limitatamente alle opinioni largamente condivise.
Nel corso del presente Documento i “suggerimenti” che trovano maggior riscontro
nell’esperienza internazionale, verranno segnalati con il seguente simbolo:
Le “Raccomandazioni, viceversa, vengono segnalate con il seguente simbolo:
DEFINIZIONE DEL DISTURBO
L’Autismo è una sindrome comportamentale causata da un disordine dello sviluppo
biologicamente determinato, con esordio nei primi tre anni di vita. Le aree prevalentemente
interessate sono quelle relative all’interazione sociale reciproca, all’abilità di comunicare idee
e sentimenti e alla capacità di stabilire relazioni con gli altri (Baird et al., 2003; Berney, 2000;
Szatmari, 2003). L’Autismo, pertanto, si configura come una disabilità “permanente” che
accompagna il soggetto nel suo ciclo vitale, anche se le caratteristiche del deficit sociale
assumono un’espressività variabile nel tempo.
Sx
Rx
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EPIDEMIOLOGIA
L’autismo non presenta prevalenze geografiche e/o etniche, in quanto è stato descritto in tutte
le popolazioni del mondo, di ogni razza o ambiente sociale. Presenta, viceversa, una
prevalenza di sesso, in quanto sembra colpire i maschi in misura da 3 a 4 volte superiore
rispetto alle femmine (Fombonne, 2003; Skuse, 2000; Yeargin-Allsopp et al., 2003).
Sulla base dei dati attualmente disponibili una prevalenza di 10 casi per 10000 sembra la
stima più attendibile (Fombonne, 2003; Volkmar et al., 2004). Tale dato confrontato con
quelli riferiti in passato ha portato a concludere che attualmente l’autismo è 3-4 volte più
frequente rispetto a 30 anni fa (Fombonne, 2003; Yeargin-Allsopp et al., 2003). Secondo la
maggioranza degli Autori (Fombonne, 2001; Baird et al., 2003; Prior, 2003), questa
discordanza nelle stime di prevalenza sarebbe dovuta più che ad un reale incremento dei casi
di autismo ad una serie di fattori individuabili in:
♦ maggiore definizione dei criteri diagnostici, con inclusione delle forme più lievi;
♦ diffusione di procedure diagnostiche standardizzate;
♦ maggiore sensibilizzazione degli operatori e della popolazione in generale;
♦ aumento dei Servizi (anche se ancora decisamente inadeguati alla richiesta, sia
quantitativamente che qualitativamente).
MECCANISMI EZIOPATOGENETICI
Le cause dell’Autismo sono a tutt’oggi sconosciute. La natura del Disturbo, infatti,
coinvolgendo i complessi rapporti mente-cervello, non rende possibile il riferimento al
modello sequenziale etiopatogenetico, comunemente adottato nelle discipline mediche:
etiologia –> anatomia patologica –> patogenesi –> sintomatologia (Rapin, 2004). Va,
inoltre, considerato che l’autismo, quale sindrome definita in termini esclusivamente
comportamentali, si configura come la via finale comune di situazioni patologiche di svariata
natura e con diversa etiologia (Baird et al., 2003). Per rimanere nell’ambito di una
terminologia “medica”, la etiologia, l’anatomia patologica e la patogenesi si pongono – per
quel che riguarda l’autismo – come tre aree di ricerca ancora distinte, in quanto i rapporti
causali fra di esse restano attualmente indefiniti.
Per cercare di leggere l’innumerevole letteratura dedicata all’argomento è utile far riferimento
a queste tre aree di ricerca, all’interno delle quali i vari studi possono essere collocati. Tale
aree possono essere indicate nel modo seguente:
1. i modelli interpretativi della clinica (= la patogenesi);
2. le basi neurobiologiche ( l’anatomia patologica);
3. i fattori causali (= l’etiologia).
1. MODELLI INTERPRETATIVI DELLA CLINICA
La prima area di ricerca è volta a definire le caratteristiche del funzionamento mentale di tipo
autistico, da cui discendono i comportamenti che caratterizzano il quadro clinico.
Nel corso di questi ultimi anni le ipotesi interpretative che sembrano riscuotere i maggiori
consensi, rientrano nei seguenti modelli:
􀂾 Teoria Socio-Affettiva
􀂾 Teoria della Mente
􀂾 Coerenza Centrale
􀂾 Funzioni Esecutive
Teoria Socio-Affettiva. La teoria socio-affettiva parte dal presupposto che l’essere umano
nasce con una predisposizione innata ad interagire con l’altro (Hobson, 1993). Si tratta di un
bisogno primario non inferito dalle esperienze, né condizionato o dettato da altri tipi di
bisogni. E’ un qualcosa che appartiene al corredo genetico del bambino, come patrimonio
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della specie, e che viene definito con diversi termini, quali empatia non inferenziale (Hobson,
1989) o intersoggettività primaria (Trevarthen et al., 2001). Peraltro, il neonato anche se
molto attento agli stimoli sensoriali sembra mostrare una particolare predilezione per quelli di
natura sociale (Dawson et al., 1998). Secondo la teoria socio-affettiva, pertanto, esisterebbe
nell’autismo un’innata incapacità, biologicamente determinata, di interagire emozionalmente
con l’altro. Tale incapacità, secondo una reazione a cascata, porterebbe all’incapacità di
imparare a riconoscere gli stati mentali degli altri, alla compromissione dei processi di
simbolizzazione, al deficit del linguaggio, al deficit della cognizione sociale.
Deficit della Teoria della Mente. Con il termine Teoria della Mente viene indicata la
capacità di riflettere sulle emozioni, sui desideri e sulle credenze proprie ed altrui e di
comprendere il comportamento degli altri in rapporto non solo a quello che ciascuno di noi
sente, desidera o conosce, ma in rapporto a quello che ciascuno di noi pensa che l’altro sente,
desidera o conosce (Baron-Cohen et al., 2000). Si tratta di un “modulo” cognitivo, che matura
progressivamente nel tempo per realizzarsi intorno ai 4 anni. In particolare, nei primi anni di
vita il bambino attraverso lo sguardo referenziale, l’attenzione condivisa e il gioco di finzione
si approprierebbe della capacità di leggere progressivamente le emozioni, i desideri e le
credenze, di sistematizzarli in un sistema di conoscenze e di giungere ad effettuare delle
rappresentazioni delle rappresentazioni mentali degli altri ( = metarappresentazioni).
Secondo questo tipo di approccio, l’autismo sarebbe legato ad un’incapacità del bambino di
accedere ad una Teoria della Mente, rimanendo in una situazione di cecità mentale (Baron-
Cohen, 1995). Il bambino autistico, cioè, sarebbe incapace di comprendere e riflettere sugli
stati mentali propri ed altrui e, conseguentemente, di comprendere e prevedere il
comportamento degli altri.
Debolezza della Coerenza Centrale. Il profilo cognitivo del bambino autistico permette di
rilevare una serie di elementi caratterizzanti, rappresentati da:
– un’incapacità di cogliere lo stimolo nel suo complesso;
– un’elaborazione segmentata dell’esperienza;
– una difficoltà di accedere dal particolare al generale;
– una polarizzazione esasperata su frammenti di esperienza.
Tali elementi hanno indotto a formulare l’ipotesi di una Debolezza della Coerenza Centrale
(Frith et al., 1994; Happé et al., 1996). La Coerenza Centrale va intesa come quella capacità di
sintetizzare in un tutto coerente, o se si preferisce di sistematizzare in un sistema di
conoscenza, le molteplici esperienze parcellari che investono i nostri sensi. Una “debolezza”
in suddetta capacità porta il bambino autistico a rimanere ancorato a dati esperenziali
parcellizzati, con incapacità di cogliere il significato dello stimolo nel suo complesso.
Un tale modello suggerisce che il funzionamento mentale di tipo autistico si caratterizza come
uno stile cognitivo che investe non solo l’elaborazione degli stimoli sociali, ma più in
generale di tutti i dati esperenziali (Happé, 1999).
Deficit delle Funzioni Esecutive. Con il termine di Funzioni Esecutive vengono indicate una
serie di abilità che risultano determinanti nell’organizzazione e nella pianificazione dei
comportamenti di risoluzione dei problemi (Pennington et al., 1996). Tali abilità sono
rappresentate da:
♦ la capacità di attivare e di mantenere attiva, a livello mentale, un’area di lavoro, una
sorta di scrivania mentale, sulla quale disporre tutti gli elementi pertinenti al compito
in esame;
♦ la capacità di formulare mentalmente un piano di azione;
♦ la capacità di non rimanere rigidamente ancorati, nella formulazione della risposta, ai
dati percettivi che provengono dal contesto;
♦ la capacità di inibire risposte “impulsive”;
♦ la capacità di essere attenti alle informazioni di ritorno, per correggere in base ad esse
il piano inizialmente formulato;
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♦ la capacità, infine, di spostare in modo flessibile l’attenzione sui vari aspetti del
contesto.
Molti dei comportamenti autistici sarebbero l’espressione di un deficit di tali abilità: per
esempio, l’impulsività, per l’incapacità di inibire le risposte inappropriate; l’iperselettività, per
l’incapacità di cogliere il tutto senza rimanere ancorato al particolare; la perseverazione, per
l’incapacità di ridirezionare in maniera flessibile l’attenzione (Ozonoff, 1997; Pennington et
al., 1996). Anche tale modello, così come quello della Coerenza Centrale, individua
nell’Autismo un deficit cognitivo di natura “generale” e non limitato all’elaborazione degli
stimoli sociali (come ipotizzato, viceversa, dal Deficit della Teoria della Mente).
2. BASI NEUROBIOLOGICHE
Si tratta dell’area di ricerca volta ad individuare eventuali strutture anatomiche e/o circuiti
disfunzionali coinvolti nella genesi del quadro clinico-comportamentale.
Strutture anatomiche. Gli studi morfologici del sistema nervoso centrale tramite tecniche di
brain imaging non invasive, ottenute tramite TAC e RMN, hanno rilevato spesso anomalie in
diverse strutture cerebrali, quali il cervelletto (Courchense, 1998; Kemper et al., 1998), il lobo
frontale (Castelli et al., 2000; Schultz et al., 2003), il sistema limbico, con particolare
riferimento all’amigdala e all’ippocampo (Baron-Cohen et al., 2000; Schultz et al., 2000;
Courchense, 2001).
Attualmente sono sempre più numerosi gli studi di neuroimaging funzionale (RM funzionale,
PET, SPECT) effettuati durante lo svolgimento di compiti linguistici o di problem solving
sociale, che hanno permesso di identificare nei soggetti normali le strutture encefaliche
coinvolte nella realizzazione di obiettivi mentali specifici (Anderson et al., 2003; Castelli et
al., 2000; Dawson et al., 1998; Schultz et al., 2003). Diverse ricerche hanno permesso di
rilevare che tali aree cerebrali in individui con autismo presentano spesso una minore attività.
Tali studi, peraltro, cominciano a fornire elementi a supporto dei vari modelli formulati,
permettendo di individuare le strutture anatomiche che sottendono le funzioni ipotizzate
(Adolphs, 1999; Dawson et al., 1998).
Neurotrasmettitori. Si suppone, con una certa attendibilità, che anomalie quantitative o
qualitative a livello recettoriale o nei neurotrasmettitori attivi nel sistema fronto-striatale, in
particolare la serotonina, la dopamina, l’ossitocina e la vasopressina, possano essere coinvolte
nel determinismo del disturbo autistico (Poustka et al., 1998; Volkmar et al., 2004).
Benché suggestivi, questi dati sono preliminari e richiedono ulteriori studi.
3. I FATTORI CAUSALI
E’ l’area di ricerca che cerca di individuare i possibili fattori in grado di avviare la sequenza
etiopatogenetica da cui in ultimo deriva il quadro comportamentale di tipo autistico.
Gravidanza e periodo neonatale. Qualsiasi condizione che interferisca con lo sviluppo del
cervello può avere teoricamente effetti a lungo termine sulle funzioni sensoriali, linguistiche,
sociali e mentali di un bambino, sì da determinare una sintomatologia autistica. Sono state, di
volta in volta, chiamate in causa diverse situazioni, quali affezioni mediche interessanti la
madre durante la gravidanza, problemi legati al parto o altri fattori ambientali. Allo stato,
tuttavia, non è stata dimostrata alcuna significativa associazione fra una di tali noxae patogene
e l’autismo (Gillberg et al., 1992). Peraltro, gli studi che sembrano indicare una maggiore
incidenza di patologie perinatali in popolazioni di soggetti autistici rispetto a gruppi di
controllo rinforzano l’ipotesi secondo cui i soggetti con disordini geneticamente determinati
presentano una ridotta competenza a nascere, che li predispone ad una sofferenza pre- perinatale
(Gillberg, 1992).
Ereditarietà e geni. Studi recenti sono fortemente suggestivi di una predisposizione genetica
(per una review aggiornata vedi Volkmar et al., 2004).
Molte indagini familiari confermano un ruolo importante svolto dall’ereditarietà nel
determinismo del disturbo autistico:
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♦ i gemelli monozigoti hanno probabilità maggiori rispetto ai gemelli eterozigoti di
essere entrambi affetti da autismo;
♦ i genitori di un bambino autistico hanno un rischio di avere un altro bambino autistico
(ricorrenza), che risulta da 50 a 100 volte maggiore rispetto al rischio per la
popolazione generale (prevalenza);
♦ alcuni membri della famiglia di soggetti con autismo presentano caratteristiche
comportamentali simili, anche se più lievi;
♦ alcune condizioni patologiche ereditate geneticamente, come la Sindrome da X Fragile
e la Sclerosi Tuberosa, si presentano spesso in comorbidità con l’autismo. Dal 3 al
25% di pazienti con Sindrome da X Fragile presenta anche autismo. La sindrome da X
Fragile è stata trovata invece in sporadici casi nelle persone autistiche,
prevalentemente negli individui di sesso maschile. Per quel che riguarda la Sclerosi
Tuberosa, dal 17 al 60% di coloro che ne sono affetti sono anche autistici. Al
contrario, gli individui con autismo presentano in una percentuale variabile fra lo 0,4 e
il 3% anche Sclerosi Tuberosa; il tasso aumenta fino all’8-14% se è presente anche
epilessia.
I riscontri epidemiologici su accennati hanno spinto diversi gruppi di ricerca ad individuare i
geni coinvolti nel determinismo dell’Autismo. L’evidenza più forte che è emersa da tali
ricerche è che non esiste “il gene” dell’Autismo, ma esistono piuttosto una serie di geni che
contribuiscono a conferire una vulnerabilità verso la comparsa del disturbo (Bailey et al.,
1996; Szatmari et al., 1998; Folstein et al., 2001).
I loci genici di maggiore interesse sono stati individuati sul cromosoma 7 (IMGSAC, 1998;
CLSA, 1999; IMGSAC, 2001a), sul 2, sul 16 e sul 17 (IMGSAC, 2001b).
Nella prospettiva già suggerita, in rapporto alla quale il quadro clinico dell’autismo
rappresenta la via finale comune di una serie di disordini neurobiologici di fondo (Baird et al.,
2003; Rapin, 2004), è evidente che i geni implicati possono essere molteplici e di diversa
natura. Va, pertanto, rivisto è il paradigma rigido di “un-gene-un-disturbo”. Normalmente,
infatti, nel complesso progetto di sviluppo dell’encefalo si coordinano una serie di geni con
funzioni diversificate (attivazione, modulazione, inibizione), dalla cui interazione si realizza
la trama morfo-funzionale preposta all’utilizzazione dei dati esperenziali e alla loro
organizzazione in sistemi di conoscenza e di relazione. Da tale prospettiva discendono due
considerazioni fondamentali. La prima riguarda il fatto che se più geni con effetti diversi sono
comunque inseriti in un unico processo, il deficit di uno qualsiasi di loro può condurre allo
stesso risultato: la vulnerabilità all’autismo. La seconda considerazione attiene strettamente al
concetto di vulnerabilità e riguarda il ruolo fondamentale dell’ambiente nell’attualizzazione di
tale vulnerabilità. Il ruolo dell’ambiente va, infatti, considerato sia nella sua capacità di
incidere “direttamente” sul genotipo, condizionando il complesso meccanismo di interazione
genica, sia “indirettamente”, slatentizzando un assetto neurobiologico geneticamente
inadeguato all’elaborazione e alla metabolizzazione degli stimoli normalmente afferenti al
sistema nervoso centrale.
Immunologia e Vaccini. Sebbene si sia da tempo sviluppato un certo interesse sulle relazioni
tra autismo e malattie autoimmunitarie, al momento attuale non ci sono evidenze che
meccanismi immunologici possano causare o contribuire all’emergenza delle anomalie
organiche riscontrate nell’autismo.
Recentemente è stata inoltre posta attenzione sull’ipotesi di una correlazione temporale stretta
tra le vaccinazioni e la comparsa di alcuni comportamenti autistici (Wakefield et al., 1998).
Allo stato attuale però non ci sono dati che indichino che un qualsiasi vaccino aumenti il
rischio di sviluppare autismo o qualsiasi altro disturbo del comportamento (Parker et al.,
2004).
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PROGNOSI
Il bambino con diagnosi certa di autismo cresce con il suo disturbo anche se nuove
competenze vengono acquisite con il tempo. Tali competenze, tuttavia, sono “modellate” da e
sul disturbo nucleare ed avranno comunque una qualità “autistica”.
La prognosi a qualunque età è fortemente condizionata dal grado di funzionamento cognitivo,
che a tutt’oggi sembra rappresentare l’indicatore più forte rispetto allo sviluppo futuro.
I bambini che sviluppano il linguaggio entro i 5 anni sembrano avere prognosi migliore, ma
occorre ricordare che il linguaggio, sia in comprensione che in produzione, appare anche esso
fortemente condizionato dal livello di funzionamento cognitivo.
Studi di follow-up hanno evidenziato che un QI di 70 o più (almeno nei test non verbali), pur
rappresentando un indicatore molto forte per un outcome positivo non protegge con certezza
da uno scarso adattamento sociale in età adulta (Howlin et al., 2004).
Nel complesso, la particolare pervasività della triade sintomatologica e l’andamento cronico
del quadro patologico determinano abitualmente nell’età adulta condizioni di disabilità, con
gravi limitazioni nelle autonomie e nella vita sociale.
Al presente un’altissima percentuale (dal 60% al 90%) di bambini autistici divengono adulti
non autosufficienti, e continuano ad aver bisogno di cure per tutta la vita.
In alcuni casi adulti autistici possono continuare a vivere nella loro casa, avvalendosi di
un’assistenza domiciliare o della supervisione da parte di operatori, che si occupano anche di
programmi incentrati sul rinforzo di abilità.
In alternativa c’è la possibilità di usufruire di strutture residenziali, che offrono non solo
possibilità terapeutiche, ma anche opportunità dal punto di vista di organizzazione del tempo
libero, attività ricreative, e addestramento a semplici forme di occupazione. Spesso però
queste strutture contribuiscono ad isolare maggiormente gli ospiti, non favorendo un
inserimento, seppur parziale, in contesti sociali.
Un numero molto minore di soggetti autistici (15-20%) è in grado di vivere e lavorare
all’interno della comunità, con vari gradi di indipendenza.
Alcune persone con autismo possono arrivare a condurre una vita normale o quasi normale.
9
LINEE GUIDA PER LA DIAGNOSI E LA VALUTAZIONE
La diagnosi di Autismo prevede un processo molto articolato e complesso, finalizzato a
stabilire se il quadro comportamentale presentato dal bambino in esame soddisfa i criteri
diagnostici definiti a livello internazionale per una diagnosi di questo tipo.
Le procedure suggerite per la formulazione della diagnosi di Autismo si inscrivono in una
Valutazione Clinica Globale, la quale ha lo scopo di raccogliere le informazioni utili a
“conoscere” il bambino nel suo complesso, la famiglia e l’intero contesto ambientale.
Considerando la natura del problema e, conseguentemente, la complessità dell’iter
diagnostico vengono puntualizzati a livello internazionale alcune raccomandazioni critiche.
Nella raccolta dei dati necessari alla diagnosi e alla valutazione bisogna far
riferimento a fonti di informazioni diversificate. Accanto, cioè, all’osservazione
diretta del bambino, è particolarmente importante poter disporre di dati attendibili relativi al
comportamento del bambino in svariati contesti (famiglia, scuola, attività del tempo libero).
Il processo diagnostico deve prevedere più incontri, sia per rispettare i tempi
necessari all’effettuazione delle varie fasi del processo, sia per consentire ai genitori
e al bambino di “familiarizzare” con l’ambiente e le figure dell’équipe.
La presa in carico diagnostica deve essere realizzata da una équipe, in cui siano
rappresentate, oltre al neuropsichiatra infantile, le figure dello psicologo, del
terapista della neuropsicomotricità dell’età evolutiva, del logopedista, dell’educatore.
Il neuropsichiatra infantile e tutte le altre figure che completano l’équipe devono
aver maturato specifiche esperienze nell’ambito dei disturbi pervasivi dello
sviluppo. In particolare, il neuropsichiatra infantile che coordina l’équipe deve aver familiarità
con i criteri diagnostici comunemente adottati a livello internazionale e con gli strumenti di
valutazione che su tali criteri sono stati elaborati.
I. CRITERI DIAGNOSTICI PER LA DIAGNOSI DI AUTISMO
La diagnosi di Autismo viene attualmente formulata facendo riferimento ai criteri del
Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV-TR), redatto dall’American
Psychiatric Association (APA, 2002).
La Tabella allegata riporta i criteri diagnostici del DSM-IV-TR (Tab. I).
Sulla base di tali criteri sono state elaborate una serie di Questionari, Interviste strutturate e
Scale di valutazione standardizzate, ormai ampiamente utilizzate a livello internazionale con
finalità diagnostiche.
Vengono di seguito descritti:
♦ I.1. i criteri diagnostici del DSM-IV-TR con alcuni suggerimenti operativi
♦ I.2. gli strumenti diagnostici
R1
R2
R3
R4
A. Un totale di 6 (o più) voci da (1), (2), e (3), con almeno 2 da (1), e uno ciascuno da (2) e (3):
1) compromissione qualitativa dell’interazione sociale, manifestata con almeno 2 dei seguenti:
a) marcata compromissione nell’uso di svariati comportamenti non verbali, come lo sguardo
diretto, l’espressione mimica, le posture corporee e i gesti, che regolano l’interazione
sociale
b) incapacità di sviluppare relazioni coi coetanei adeguate al livello di sviluppo
c) mancanza di ricerca spontanea della condivisione di gioie, interessi o obiettivi con altre
persone (per es., non mostrare, portare, né richiamare l’attenzione su oggetti di proprio
interesse)
d) mancanza di reciprocità sociale o emotiva;
2) compromissione qualitativa della comunicazione come manifestato da almeno 1 dei seguenti:
a) ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio parlato (non accompagnato da un
tentativo di compenso attraverso modalità alternative di comunicazione come gesti o
mimica)
b) in soggetti con linguaggio adeguato, marcata compromissione della capacità di iniziare o
sostenere una conversazione con altri
c) uso di linguaggio stereotipato e ripetitivo o linguaggio eccentrico
d) mancanza di giochi di simulazione vari e spontanei, o di giochi di imitazione sociale
adeguati al livello di sviluppo;
3) modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati, come
manifestato da almeno 1 dei seguenti:
a) dedizione assorbente ad uno o più tipi di interessi ristretti e stereotipati anomali o per
intensità o per focalizzazione
b) sottomissione del tutto rigida ad inutili abitudini o rituali specifici
c) manierismi motori stereotipati e ripetitivi (battere o torcere le mani o il capo, o complessi
movimenti di tutto il corpo)
d) persistente ed eccessivo interesse per parti di oggetti;
B. Ritardi o funzionamento anomalo in almeno una delle seguenti aree, con esordio prima dei 3
anni di età: (1) interazione sociale, (2) linguaggio usato nella comunicazione sociale, o (3) gioco
simbolico o di immaginazione.
C. L’anomalia non è meglio attribuibile al Disturbo di Rett o al Disturbo Disintegrativo della
Fanciullezza.
Tab. I – Criteri diagnostici del Disturbo Autistico (dal DSM-IV-TR).
11
I.1. SUGGERIMENTI CLINICI PER LA LETTURA DEI CRITERI
DIAGNOSTICI DEL DSM-IV-TR
CRITERIO A.1 = COMPROMISSIONE QUALITATIVA DELL’INTERAZIONE SOCIALE
1) compromissione qualitativa dell’interazione sociale, manifestata con almeno 2 dei
seguenti:
a) marcata compromissione nell’uso di svariati comportamenti non verbali, come lo
sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee e i gesti, che regolano
l’interazione sociale
b) incapacità di sviluppare relazioni coi coetanei adeguate al livello di sviluppo
c) mancanza di ricerca spontanea della condivisione di gioie, interessi o obiettivi
con altre persone (per es., non mostrare, portare, né richiamare l’attenzione su
oggetti di proprio interesse)
d) mancanza di reciprocità sociale o emotiva;
L’interazione sociale si riferisce alla caratteristica propria del genere umano di
condividere con l’altro – e più in generale con i membri della comunità –
emozioni, interessi, attività e stili di comportamento propri del gruppo di
appartenenza. Tale caratteristica, che assume la connotazione di un bisogno
primario, si esprime con una serie di comportamenti “osservabili”, che, tuttavia,
variano nel corso dello sviluppo. Si passa, infatti, da comportamenti molto
elementari, quali lo sguardo o il sorriso (propri del lattante) a comportamenti
progressivamente più strutturati ed espliciti di ricerca dell’altro per condividere
esperienze, interessi ed attività. In accordo al DSM-IV-TR, nell’Autismo è
seriamente compromesso tale bisogno e, conseguentemente, risultano atipici i
comportamenti ad esso correlati.
Anche se la compromissione qualitativa dell’interazione sociale
accompagna il soggetto autistico nel corso di tutto il suo ciclo vitale, i
comportamenti con cui essa si esprime variano necessariamente nel corso dello
sviluppo.
• Nel corso del primo anno di vita, i comportamenti atipici che abitualmente
indicano una compromissione qualitativa dell’interazione sociale sono
essenzialmente rappresentati da: sguardo sfuggente; assenza di sorriso sociale;
mancanza di atteggiamenti anticipatori quando si cerca di prenderlo in braccio
(tendere le braccia); atipie del dialogo tonico (difficoltà a tenerlo in braccio);
inadeguatezza dell’attenzione congiunta (difficoltà di richiamare la sua attenzione
su un oggetto o un evento interessante) (Mundy et al., 1990; Tommasello, 1995;
Mundy, 2003).
• Fra il secondo e il quinto anno di vita, la compromissione dell’interazione
sociale si arricchisce di comportamenti sempre più espliciti e caratteristici. Il
bambino “si aggira” fra gli altri come se non esistessero; tende ad isolarsi; quando
chiamato “non risponde”; non richiede la partecipazione dell’altro nelle sue
attività, né lo rende partecipe delle sue attività (richiamando, ad esempio,
l’attenzione dell’altro su oggetti o eventi interessanti, ovvero portando o
mostrando oggetti); utilizza l’altro in maniera strumentale per l’appagamento
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delle esigenze del momento (il bambino, ad esempio, senza guardarlo negli occhi
prende il braccio dell’altro e lo indirizza verso una cosa, che lui da solo non riesce
a prendere). Quest’ultimo aspetto induce a tener ben presente che il rapporto
interpersonale non è mai – o quasi mai – completamente assente: esso tuttavia è
limitato sempre – o quasi sempre – a richiedere (qualcosa o qualche azione) e non
a condividere (interessi, bisogni, emozioni) (Mundy, 2003).
• In epoche ancora successive (dal sesto anno di vita in poi), la compromissione
dell’interazione sociale può continuare ad esprimersi con i comportamenti su
accennati ovvero, in relazione al conseguimento di un adattamento formale
all’ambiente, può assumere forme meno esplicite. In queste ultime situazioni,
tuttavia, a fronte di un apparente adeguamento alle regole sociali, persiste uno
scarso investimento della relazione con mancata individuazione dell’altro come
figura privilegiata per condividere esperienze, interessi ed attività.
Nel complesso, le diverse modalità con cui può esprimersi la
compromissione dell’interazione sociale hanno portato ad individuare
tre profili (Wing, 1979):
a. bambini inaccessibili, che si “tirano fuori” da qualsiasi rapporto sociale;
b. bambini passivi, che tendono ad isolarsi, ma sono in grado di interagire
quando adeguatamente sollecitati;
c. bambini attivi-ma-bizzarri, che sono capaci di prendere l’iniziativa
nell’interazione sociale, ma lo fanno in maniera inopportuna, enfatica ed
inappropriata. Si tratta di quei bambini autistici, ad esempio, che non solo
non rifiutano il contatto fisico, ma anzi lo ricercano attivamente, ma con
modalità inappropriate, e spesso dispensano baci a persone viste per la
prima volta o ad estranei.
I diversi profili segnalati – inaccessibile, passivo e attivo-ma-bizzarro –
non variano solo da bambino a bambino, ma, in uno stesso bambino,
possono alternarsi nel corso dello sviluppo (Wing, 1988). Ad esempio, un
bambino completamente fuori della relazione può, nel corso dello sviluppo,
adottare modalità di interazione di tipo pseudo-sociale; così come bambini che
inizialmente sembrano collocarsi nella categoria dei passivi – capaci, cioè, di
un’interazione quando adeguatamente stimolati -, possono in fasi successive dello
sviluppo chiudersi completamente.
I comportamenti segnalati dal DSM-IV-TR non vanno considerati di per
se stessi, ma solo quali segnalatori di un disturbo sottostante: la
compromissione qualitativa dell’interazione sociale.
Peraltro, il termine “qualitativo”, vuole indicare la necessità di non limitarsi a
considerare la semplice presenza/assenza di un comportamento, quanto piuttosto
di tener conto del reale piacere da parte del soggetto di condividere con l’altro
esperienze, affetti ed interessi. Per esempio, la presenza del sorriso o l’avvicinarsi
all’altro e ricercare il contatto fisico non sono criteri sufficienti per definire una
buona qualità dell’interazione sociale; per contro, lo sguardo sfuggente la
presenza di condotte di evitamento non sono di per se stessi comportamenti
sufficienti per definire una cattiva qualità dell’interazione sociale, almeno nel
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senso indicato dal DSM-IV-TR quale criterio diagnostico per il Disturbo
Autistico.
CRITERIO A.2 = COMPROMISSIONE QUALITATIVA DELLA COMUNICAZIONE
2) compromissione qualitativa della comunicazione come manifestato da almeno 1 dei
seguenti:
a) ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio parlato (non
accompagnato da un tentativo di compenso attraverso modalità alternative di
comunicazione come gesti o mimica)
b) in soggetti con linguaggio adeguato, marcata compromissione della capacità di
iniziare o sostenere una conversazione con altri
c) uso di linguaggio stereotipato e ripetitivo o linguaggio eccentrico
d) mancanza di giochi di simulazione vari e spontanei, o di giochi di imitazione
sociale adeguati al livello di sviluppo;
Tale criterio, anche se fa esplicito riferimento alla “comunicazione”, di fatto si
riferisce a due distinte aree funzionali:
A. la capacità di “capire” (in ricezione) e di utilizzare (in espressione) quei
codici comunicativi che permettono all’individuo di entrare in un
interscambio con l’altro;
B. la capacità di accedere a giochi di finzione; la capacità, cioè, di riproporre
in chiave ludica situazioni sociali vissute e mentalmente rielaborate.
A. Incapacità di padroneggiare i codici della comunicazione.
La “voglia” di comunicare, intesa come il piacere di rendere partecipe l’altro di un
proprio interesse o di un proprio stato d’animo – che per definizione è carente
nell’Autismo – appartiene di fatto al primo criterio (“Compromissione qualitativa
dell’interazione sociale”).
La compromissione qualitativa della comunicazione espressa in questo secondo
criterio fa piuttosto riferimento all’incapacità da parte del bambino autistico di
appropriarsi di quei codici che servono per la comunicazione. Tali codici si
riferiscono non solo al linguaggio verbale, ma anche alla componente posturocinetica
(posture, sguardo, atteggiamenti mimici, gesti) e alla componente non
verbale del linguaggio (intonazione, prosodia, pause): codici che normalmente
assumono un’elevata valenza comunicativa, più ancora del significato veicolato
dalla giustapposizione di parole in frase. Il deficit del padroneggiamento dei
codici della comunicazione investe sia il versante ricettivo che quello espressivo:
il bambino autistico non riesce a “capire” quello che gli altri vogliono
comunicargli e, nello stesso tempo, non riesce a “farsi capire” (Prizant et al.,
1987).
Anche se la compromissione qualitativa della comunicazione
accompagna il soggetto autistico nel corso di tutto il suo ciclo vitale, le
modalità con cui essa si esprime variano necessariamente nel corso dello sviluppo.
• Nel corso dei primi anni di vita, la compromissione della comunicazione si
esprime con il mancato uso del linguaggio verbale e la “disattenzione” nei
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confronti del linguaggio verbale degli altri (“non ci chiama per nome”, “non si
volta quando chiamato per nome”, “non usa le parole per chiedere o indicare”,
“non sta a sentire quando gli si chiede di fare qualcosa”). Peraltro, questo
disinvestimento del linguaggio verbale non è compensato da modalità alternative
di comunicazione come gesti o mimica.
• I bambini che già nei primi anni di vita cominciano ad accedere a produzioni
“verbali”, mettono comunque in evidenza atipie espressive rappresentate da
gergolalie, ecolalia immediata, ecolalia differita, inversioni pronominali,
stereotipie verbali. Tali atipie, oltre a rendere poco funzionali queste primitive
forme espressive, testimoniano l’incapacità del bambino di “capire” il significato
del linguaggio (l’inversione pronominale, per esempio, rappresenta l’incapacità
del bambino di differenziare i pronomi; così anche, la ripetizione di una domanda
rappresenta spesso una forma di risposta ecolalica, in cui il bambino non riesce a
cogliere la forma interrogativa).
• Dopo il sesto anno di vita, il 50% dei casi riesce ad accedere al linguaggio
verbale. Anche in questi casi, tuttavia, esso risulta qualitativamente inadeguato.
Nel complesso, l’aspetto caratterizzante la compromissione del linguaggio è
rappresentato dal mancato riconoscimento dell’altro come partner
conversazionale. In questo senso vanno interpretati anche altri disturbi, quale
quello di parlare di argomenti a lui favoriti senza preoccuparsi se interessino
l’interlocutore o se siano pertinenti al discorso. Frequente è l’uso di frasi bizzarre,
spesso associate in maniera illogica ad alcuni eventi (espressioni idiosincratiche).
Anche la perseverazione nel porre domande – a volte la stessa domanda – di cui
conoscono perfettamente la risposta, denota la mancanza di interesse o del
bisogno di condividere con chi ascolta un contesto più ampio di interazioni in cui
entrambi, chi parla e chi ascolta, siano coinvolti in modo attivo. Per quel che
riguarda, infatti, la componente non-verbale del linguaggio, raramente vengono
usati quei gesti e quelle pantomime che solitamente accompagnano il messaggio
verbale per arricchirne il significato. Sul piano del linguaggio di comprensione,
vengono segnalati alcuni deficit molto particolari, quali l’incapacità di riconoscere
i motti di spirito, i doppi sensi, le metafore e le locuzioni idiomatiche. Si tratta di
difficoltà riconducibili al disturbo di una particolare area del linguaggio, la
pragmatica, intesa come quell’area relativa alla capacità di definire le relazioni fra
il linguaggio propriamente detto e chi lo usa, in rapporto agli scopi, ai bisogni,
alle intenzioni e ai ruoli di chi partecipa alla conversazione. Ne deriva una
comprensione cosiddetta letterale.
B. Deficit della capacità di giochi di finzione.
Il gioco di finzione, inteso come la capacità del bambino di riproporre in chiave
ludica situazioni sociali vissute e rielaborate, rappresenta una tappa obbligata
nello sviluppo del bambino. Un gran numero di ricerche ha ormai confermato,
soprattutto nei primi anni di vita, l’incapacità del bambino autistico di effettuare
giochi di finzione (Baron-Cohen et al., 1996; Charman et al., 1997; Rogers et al.,
2003).
Il gioco di finzione, anche normalmente, non segue un carattere del
tutto-o-niente, ma presenta nel corso dello sviluppo una complessità
progressivamente crescente (dal far finta di bere da una tazza vuota al far finta di
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essere un “dottore” o altro). Pertanto, anche nell’Autismo, il fatto che un bambino
di 2 anni non faccia un gioco di finzione (per esempio, far finta di mangiare una
pappa inesistente), non significa che a 5 anni non lo possa fare. E’ vero, tuttavia,
che questa attività sarà sempre atipica, in quanto: ipostrutturata rispetto alla
normalità; limitata a solo alcune azioni, riprodotte peraltro in maniera
“meccanica” e ripetitiva; priva di un reale piacere di condivisione con l’altro
(Rogers et al., 2003).
In alcuni bambini autistici si rileva un’intensa attività immaginativa,
espressa dalla riproposizione di scene vissute o viste in TV, che vengono
mimate in tutti i dettagli. Tali attività non possono essere interpretate come
“giochi di simulazione” o “di imitazione sociale”, in quanto sono caratterizzate da
ripetitività, perseverazione e “dedizione assorbente”. Peraltro, tale caratteristiche
inducono ad inserire queste attività nel terzo elemento della triade sintomatologica
dell’Autismo ( = Modalità di Comportamento, Interessi e Attività Ristretti,
Ripetitivi e Stereotipati).
CRITERIO A.3 = MODALITÀ DI COMPORTAMENTO, INTERESSI E ATTIVITÀ
RISTRETTI, RIPETITIVI E STEREOTIPATI
A.3) modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati,
come manifestato da almeno 1 dei seguenti:
a) dedizione assorbente ad uno o più tipi di interessi ristretti e stereotipati anomali o
per intensità o per focalizzazione
b) sottomissione del tutto rigida ad inutili abitudini o rituali specifici
c) manierismi motori stereotipati e ripetitivi (battere o torcere le mani o il capo, o
complessi movimenti di tutto il corpo)
d) persistente ed eccessivo interesse per parti di oggetti;
Vengono inclusi in questo criterio tutti quei movimenti, quei gesti e/o quelle
azioni che per la loro frequenza e la scarsa aderenza al contesto assumono la
caratteristica di comportamenti atipici e bizzarri.
I punti (a) e (d) sembrano esprimere un’atipia sottostante comune. Il
bambino autistico, cioè, presenta un interesse assorbente e perseverante
che può riguardare diversi aspetti della realtà. L’interesse assorbente e
perseverante, cioè, può riguardare la raccolta di stimoli provenienti dal proprio
corpo (per esempio, guardarsi le mani o assumere posture bizzarre per le
sensazioni che queste gli rimandano), ovvero, l’osservazione di particolari oggetti
ed eventi (per esempio, oggetti che rotolano o particolari configurazioni
percettive), o anche l’esecuzione di determinate attività più o meno elaborate e
mentalizzate (per esempio, mimare una scena di un film o “sapere” tutto dei
dinosauri) . Viene, pertanto, a configurarsi una sorta di continuum, da interessi
poco elaborati ad attività molto strutturate: quello che va sottolineato è che
cambiano gli interessi, ma l’Interesse inteso come stato partecipativo e dedizione
assorbente non cambia. La diversa scelta degli “interessi” è probabilmente legata
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ad una serie di fattori, quali: lo stile temperamentale; particolari caratteristiche
dell’ambiente; l’età; l’entità della sintomatologia autistica; l’eventuale copresenza
e la gravità di un ritardo mentale associato.
Nel punto (b) rientra la ritualizzazione di alcune abituali routine
quotidiane, quali il mangiare, il lavarsi, l’uscire, che devono svolgersi
secondo sequenze rigide ed immutabili. Il bambino, ad esempio, al momento del
pasto, può aver bisogno di mangiare sempre nella stessa stanza, nello stesso posto,
con la stessa disposizione spaziale del piatto e delle posate; più spesso sono le
caratteristiche del cibo che devono essere sempre le stesse, sia in termini di sapore
che di aspetto (o sempre pastina o sempre formaggini o sempre surgelati di forma
particolare). Questo bisogno di immutabilità – riferito dai genitori come
espressione di un “carattere abitudinario” – si verifica anche nel gioco
(disposizione di soldatini o di macchinine secondo un ordine che deve rimanere
immodificato), nella disposizione degli oggetti nella sua stanza (che deve essere
sempre la stessa), nei percorsi da seguire nelle uscite o nell’attaccamento
esasperato ad oggetti insoliti. Nel complesso, due aspetti particolari caratterizzano
questo tipo di comportamenti: l’abilità del bambino di cogliere anche minime
variazioni del set percettivo (accorgersi, ad esempio, che la disposizione dei
soldatini è stata alterata o che il cibo ha una consistenza lievemente diversa) e le
reazioni di profondo disagio quando ciò avviene. In effetti, è proprio questo
profondo disagio – che, peraltro, si traduce in vivaci reazioni comportamentali di
rabbia ed aggressività auto o eterodiretta -, che conferisce a queste abitudini il
carattere di un rituale ossessivo-compulsivo.
Nel punto (c) rientrano i manierismi motori ripetitivi e sterotipati. Tali
“comportamenti”, anche se molto caratteristici, non sono tuttavia
patognomonici, in quanto si riscontrano in diverse altre situazioni
psicopatologiche, non autistiche (Bailey et al., 1996).
Anche se le atipie degli interessi e delle attività accompagnano il
soggetto autistico nel corso di tutto il suo ciclo vitale, le modalità con
cui esse si esprimono variano necessariamente nel corso dello sviluppo.
Ciò che va tenuto presente è che, considerati nel loro complesso, i comportamenti
inclusi in questo terzo criterio della triade sintomatologica dell’Autismo sembrano
configurare un particolare funzionamento mentale, i cui elementi caratterizzanti
sono rappresentati da una povertà di contenuti ideativi, dalla ripetitività di quelli
presenti e da una scarsa flessibilità degli schemi mentali che risultano pertanto
rigidi, perseveranti e poco modificabili “dall’esterno”.
CRITERIO B = ETÀ DI ESORDIO
B. Ritardi o funzionamento anomalo in almeno una delle seguenti aree, con esordio prima
dei 3 anni di età: (1) interazione sociale, (2) linguaggio usato nella comunicazione
sociale, o (3) gioco simbolico o di immaginazione.
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Il DSM-IV-TR inserisce fra i criteri diagnostici un esordio prima dei 3 anni di
vita, che si esprime con ritardi o atipie nelle aree dell’interazione sociale e/o della
comunicazione e/o del gioco simbolico (APA 2002).
Per definizione, pertanto, il quadro clinico conclamato deve realizzarsi entro il 3
anno di vita. La comparsa dei primi segni e i sintomi tuttavia è spesso subdola e
mal definita.
Anche se è impossibile datare con precisione l’ “inizio” dell’Autismo, è possibile
però definire, con l’aiuto dei genitori, l’epoca in cui l’espressività dei vari sintomi
assume una rilevanza tale da permettere un inquadramento diagnostico in accordo
ai criteri del DSM-IV-TR: facendo riferimento ai resoconti anamnestici di genitori
di bambini autistici risulta che in oltre l’80% dei casi il quadro clinico
dell’Autismo si è realizza to entro il 20° mese di vita.
I genitori sono le prime persone a rendersi conto, già nei primi mesi di
vita, di un problema di sviluppo e, retrospettivamente, la maggioranza di
essi ritiene che si sarebbe potuto fare una diagnosi di Autismo entro il 20° mese di
vita. Tale rilievo, peraltro, è in linea con i dati comunemente riferiti in letteratura,
in base ai quali il Disturbo Autistico è diagnosticabile all’età di 2 anni (Charman et
al., 1997; Cox et al., 1999; Lord, 1995; Stone et al., 1999).
CRITERIO C = DIAGNOSI DIFFERENZIALE CON ALTRI DISTURBI PERVASIVI DELLO
SVILUPPO
C. L’anomalia non è meglio attribuibile al Disturbo di Rett o al Disturbo Disintegrativo
della Fanciullezza.
Il DSM-IV-TR inserisce il Disturbo Autistico in un più ampio gruppo di disturbi, i
Disturbi Pervasivi dello Sviluppo. Si tratta di altre categorie che pur condividendo
con il Disturbo Autistico alcune caratteristiche, se ne differenziano per altre. Tali
differenze riguardano una diversa espressività dei sintomi della triade ovvero
alcune caratteristiche clinico-evolutive. In particolare, il DSM-IV-TR include nei
Disturbi Pervasivi dello Sviluppo:
♦ il Disturbo di Asperger
♦ il Disturbo di Rett
♦ il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza
♦ il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato
Disturbo di Asperger
Il Disturbo di Asperger, o Sindrome di Asperger, presenta quali elementi clinici
caratterizzanti, che lo portano ad essere incluso nei Disturbi Pervasivi dello
Sviluppo:
♦ una compromissione qualitativa dell’interazione sociale, che il più delle
volte si manifesta “attraverso un approccio sociale agli altri eccentrico ed
unilaterale, piuttosto che attraverso l’indifferenza sociale ed emotiva”
(APA, 2002);
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♦ la presenza di schemi di comportamento, interessi ed attività ristretti e
ripetitivi, che si esprimono soprattutto con una “dedizione assorbente ad
un argomento o ad un interesse circoscritto, sul quale il soggetto può
raccogliere una gran quantità di fatti o di informazioni” (APA, 2002).
Esso, pertanto, si differenzia dal Disturbo Autistico per:
♦ l’assenza nell’anamnesi di un ritardo del linguaggio. Il linguaggio,
peraltro, all’epoca della consultazione, risulta ben sviluppato anche se
“insolito per la fissazione dell’individuo su certi argomenti o per la sua
verbosità” (APA, 2002);
♦ l’assenza nell’anamnesi di un ritardo dello sviluppo cognitivo. Il livello
cognitivo, peraltro, all’epoca della consultazione risulta nella norma,
anche se disomogeneo per una significativa prevalenza del Quoziente
Intellettivo Verbale rispetto a quello di Performance;
♦ le caratteristiche dell’interazione sociale, che prevedono la “presenza di
una motivazione a rivolgersi all’altro anche se ciò viene fatto in modo
estremamente eccentrico, unilaterale, verboso e insensibile” (APA, 2002);
♦ le caratteristiche delle atipie nel repertorio di interessi ed attività. Mentre,
infatti, nell’Autismo prevalgono i manierismi motori, l’attenzione
circoscritta a parti di oggetti e il marcato disagio nei confronti del
cambiamento, nel Disturbo di Asperger, in relazione anche al buon livello
linguistico e cognitivo, prevale l’interesse nei confronti di argomenti sui
quali l’individuo spende una gran quantità di tempo a raccogliere
informazioni e fatti.
Il dibattito scientifico che ha accompagnato, e tutt’ora accompagna
questa sindrome, suggerisce qualche prudenza nell’uso indiscriminato di
una diagnosi di questo tipo (Volkmar et al., 2004). In realtà i criteri diagnostici
prima elencati, non sempre permettono nella pratica clinica una diagnosi
differenziale tra Disturbo Autistico ad alto funzionamento, il Disturbo di Asperger
e il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato (Szatmari,
2003; Walker et al., 2004).
Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza
Il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza (DDF), in fase di “stato” presenta le
caratteristiche tipiche del Disturbo Autistico, da cui si differenzia esclusivamente
per le modalità di esordio. Il DDF, infatti, è caratterizzato da uno sviluppo
apparentemente normale nei primi due anni di vita. Successivamente a tale epoca
si verifica una “perdita” di competenze socio-comunicative ed adattive
precedentemente acquisite.
Anche se nella maggioranza dei casi di Autismo, la ricostruzione
anamnestica permette di rilevare fin dalle prime fasi dello sviluppo
segni e sintomi riferibili ad un disturbo dell’interazione e della comunicazione
sociale, esiste una percentuale di casi variabile dal 20% al 25%, in cui i genitori
riferiscono uno sviluppo apparentemente normale fino all’età di 18-24 mesi:
Autismo con regressione (Baird et al., 2003). Considerando che anche nel DDF
esistono casi in cui lo sviluppo precedente la “disintegrazione” non è stato
veramente “normale”, la distinzione tra Autismo con regressione e Disturbo
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Disintegrativo della Fanciullezza non è sempre netta, per la presenza di zone di
sovrapposizione (Baird et al., 2003; Volkmar et al., 2004).
Disturbo di Rett
Il Disturbo di Rett, o Sindrome di Rett, è un disturbo neurodegenerativo con
etiologia definita (mutazione nel gene MECP2). Colpisce quasi esclusivamente le
femmine ed esordisce tra i 6 e i 18 mesi, dopo un periodo di sviluppo normale. Il
quadro clinico è caratterizzato da: una decelerazione della crescita del capo (non
costante); atassia; tremori; perdita delle competenze prassiche e della
coordinazione motoria; perdita delle competenze comunicative verbali e non
verbali; perdita delle competenze interattive. Abituale è la presenza di alterazioni
elettroencefalografiche.
A differenza dell’autismo:
♦ le mani sono interessate da tipiche stereotipie
♦ la manipolazione finalistica degli oggetti è praticamente assente
♦ i disturbi dell’interazione sociale sono generalmente transitori
♦ il quadro neurologico è più ricco e patognomonico
Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato
La categoria del DPS-NAS viene comunemente usata nei casi in cui, pur se
presenti disturbi riferibili all’interazione sociale, alla comunicazione e/o al
repertorio di interessi ed attività (stereotipati e ristretti), il quadro clinico non
assume caratteristiche qualitativamente definite e quantitativamente sufficienti per
una diagnosi di autismo o di altri DPS.
Ne deriva una categoria residua, per la quale non sono stati ancora definiti i criteri
diagnostici di inclusione (Buitelaar et al., 1998; Scheeringa, 2001; Tanguay, 2004;
Volkmar et al., 2004; Walker et al, 2004).
ALTRI SINTOMI CARATTERISTICI, NON INCLUSI NEL DSM-IV-TR.
Molto spesso il quadro clinico mette in evidenza comportamenti molto
caratteristici, che non vengono, tuttavia, inclusi fra i criteri diagnostici del DSMIV-
TR, in quanto non patognomonici.
Abnorme risposta agli stimoli sensoriali. Molti bambini autistici, apparentemente
“sordi” ai comuni suoni dell’ambiente, mostrano una particolare sensibilità nei
confronti di alcuni stimoli uditivi (per esempio, sirene, cigolii, campanelli). Tali
suoni scatenano nel bambino violente reazioni di panico, con tentativi di
proteggersi (per esempio, coprirsi le orecchie con le mani). Risposte simili
possono essere osservate anche nei confronti di particolari stimoli visivi (flash,
luci intense, determinati oggetti) o di alcuni stimoli tattili. L’elemento
caratterizzante questi vari comportamenti è quindi rappresentato sostanzialmente
dalla tonalità emotiva di fondo che li accompagna, la crisi di panico. Essa è
scatenata da stimoli di diversa natura, che, verosimilmente, per un disturbo
percettivo assumono connotazioni emozionali aberranti.
Condotte autolesive. Diversi bambini autistici presentano condotte autoaggressive,
quali battere il capo contro la parete o colpirsi il capo con il pugno.
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Tali comportamenti richiedono spesso misure terapeutiche attive e eticamente
accettabili, perchè possono portare a seri traumi o automutilazioni.
Presenza di particolari abilità. Queste “isole di speciali competenze” possono
riguardare la capacità di discriminare e riconoscere particolari stimoli visivi,
un’eccezionale memoria per numeri o date, o un’inaspettata capacità di leggere e
recitare interi brani.
Ritardo Mentale. Circa il 75% dei pazienti autistici presenta Ritardo Mentale
(Rapin, 1998). Recentemente, l’estendersi del concetto di Disturbo dello Spettro
Autistico ha determinato stime sensibilmente differenti: in particolare, la
percentuale di Ritardo Mentale in bambini con Disturbo dello Spettro Autistico si
sarebbe ridotta al 50% (Volkmar et al., 2004).
Epilessia. L’epilessia si verifica in circa il 30-40% dei casi. In un terzo dei casi
l’epilessia insorge nei primi anni di vita, senza assumere caratteristiche particolari
(Cohen et al., 2004). Nella maggioranza dei casi, le crisi insorgono in epoca
adolescenziale ed assumono le caratteristiche delle crisi parziali complesse e
tonico-cloniche generalizzate. Le forme di epilessia ad insorgenza nei primi anni
di vita sollevano una serie di interrogativi circa la natura dei rapporti Autismo-
Epilessia (Rapin, 1998). Per lo più, l’autismo e l’epilessia vengono considerati
epifenomeni di un comune danno encefalico.
I.2. STRUMENTI DIAGNOSTICI
Poiché la diagnosi di Disturbo Autistico è basata su parametri esclusivamente
comportamentali risulta indispensabile, da un lato, riferirsi a situazioni di
osservazione standardizzate e, dall’altro, adottare scale di valutazione
opportunamente elaborate per il “comportamento” autistico.
Vengono di seguito riportati gli strumenti con significato diagnostico,
maggiormente utilizzati a livello internazionale.
Childhood Autism Rating Scale (CARS) – (Schopler et al., 1988)
E’ una scala di valutazione del comportamento autistico che permette di esplorare,
raccogliendo informazioni in contesti vari e da fonti multiple, 15 aree di sviluppo:
relazioni interpersonali, imitazione, affettività, utilizzo del corpo, gioco ed utilizzo
degli oggetti, livello di adattamento, responsività agli stimoli visivi, responsività
agli stimoli uditivi, modalità sensoriali, reazioni d’ansia, comunicazione verbale,
comunicazione extra-verbale, livello di attività, funzionamento cognitivo,
impressioni generali dell’esaminatore.
A ciascun’area viene assegnato un punteggio da 1 a 4 (1 = nella norma; 2 =
lievemente anormale; 3 = moderatamente anormale; 4 = gravemente anormale per
l’età). Per determinare il grado di anormalità nelle aree di sviluppo analizzate
l’esaminatore deve considerare la peculiarità, la frequenza, l’intensità e la durata
del comportamento considerato. La somma dei punteggi riportati in ciascun’ area
può variare da 15 a 60 ed esprime il livello di gravità dell’autismo. La
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maggioranza degli studi sembra fissare il cut-off a 30 per i bambini e a 27 per gli
adolescenti (Mesibov et al., 1989).
Possono essere utilizzate a partire dai 2 anni di età. Richiedono circa 30 minuti
per la somministrazione. E’ importante un training per il loro utilizzo.
Le CARS sono state oggetto di numerosi studi che ne hanno dimostrato la
consistenza interna (Schopler et al., 1980; Garfin et al., 1988; Sturmey et al.,
1992), l’attendibilità fra operatori (Schopler et al., 1980; Sevin et al., 1991) e la
validità (Teal et al., 1986; Mesibov et al., 1989; Sponheim et al., 1996; DiLalla et
al., 1994; Eaves et al., 1993; Van Bourgondien et al., 1992; Pilowsky et al., 1998).
Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS) (Lord et al., 2000)
Si tratta di uno strumento ampiamente diffuso per la diagnosi di autismo,
complementare all’intervista strutturata per genitori (ADI-R). Inizialmente creati
come strumenti per la ricerca, sono stati adattati per l’uso sistematico nella pratica
clinica. L’ADOS è basata sull’osservazione diretta e standardizzata del bambino
ed è strutturato in moduli che esplorano il comportamento sociale in contesti
comunicativi naturali. I diversi moduli comprendono prove selezionate in base
all’età e al livello linguistico.
Permette diagnosi entro lo spettro autistico sulla base dei criteri DSM e ICD.
Adatto all’utilizzo a partire dai 2 anni (anche per bambini non verbali), fino all’età
adulta. La somministrazione richiede 30-45 minuti, ma richiede training e
procedure di convalida specifiche.
Autism Diagnostic Interview – Revised (ADI-R) (Lord et al, 1994)
Si tratta di uno strumento diagnostico per la valutazione del disturbo autistico,
complementare all’ADOS. Consiste in un’intervista semistrutturata destinata ai
genitori, basata su domande relative ai comportamenti appartenenti alla triade
sintomatologica e al tipo di gioco. Fornisce un punteggio che permette diagnosi
entro lo spettro autistico secondo i criteri diagnostici DSM e ICD. La
somministrazione necessita di circa 1 ora e mezza e richiede training specifici e
successive procedure di convalida.
Autism Behavior Checklist (ABC) (Krug, Arid, Almond, 1980)
Scala di valutazione del comportamento che fa riferimento a 57 comportamenti
“problema”, divisi in 5 categorie: linguaggio, socializzazione, uso dell’oggetto,
sensorialità e autonomia, in base ai quali fornisce un punteggio. Si utilizza per
bambini a partire dai 18 mesi. E’ dotato di bassa sensibilità e non si mostra tanto
utile come strumento diagnostico, quanto piuttosto come mezzo per la valutazione
degli effetti dell’intervento terapeutico durante le verifiche periodiche.
Gillian Autism Rating Scale (GARS) (Gilliam, 1995).
La Gillian Autism Rating Scale (GARS) è una checklist per genitori basata sui
criteri diagnostici del DSM IV e quindi gli items sono raggruppati in aree che
valutano lo sviluppo sociale, la comunicazione e i comportamenti stereotipati. La
GARS si è dimostrata uno strumento assai utile e di semplice applicabilità al fine
di identificare il disturbo autistico, di focalizzare gli obiettivi degli interventi
abilitativi ed educativi e di documentare i risultati degli interventi specifici
attivati.
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La GARS si è dimostrata uno strumento valido per favorire la comunicazione con
i genitori proprio per la sua capacità di rappresentare, nel suo insieme di quesiti, i
problemi concreti, quotidiani del bambino e la capacità del loro riconoscimento
da parte dei familiari. La GARS può essere applicata dai diversi professionisti
coinvolti sia nel processo diagnostico sia di programmazione e valutazione degli
interventi abilitativi e educativi. L’ampia fascia di età cui la GARS (dai 3 ai 22
anni) è applicabile ne rafforza ulteriormente la sua utilizzabilità.
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In aggiunta agli strumenti appena citati, che hanno un significato “diagnostico”,
vanno raccomandate altre due scale che si pongono come strumenti di
“valutazione”, ormai ampiamente utilizzati: il Psycho-Educational Profile (PEPR)
e il Vineland-Adaptive Behavior Scales (VABS).
Psycho-Educational Profile (PEP-R) (Schopler et al., 1989).
Si tratta di una scala di valutazione per bambini di età mentale dai 6 mesi ai 7
anni, che permette di ricavare indicazioni mirate all’ottenimento di un profilo di
sviluppo dettagliato ed alla pianificazione di un programma di intervento specifico
ed individualizzato. Occorrono 45-90 minuti per la somministrazione.
Le funzioni ed i comportamenti indagati sono: imitazione, percezione, motricità
fine e grossolana, coordinazione oculo-manuale, livello cognitivo, relazione ed
affetti, gioco ed interesse per il materiale, risposte sensoriali e linguaggio. Molti
dei vantaggi correlati all’utilizzo dello strumento sono intrinseci alla stessa scala,
ossia la presenza di materiale strutturato concreto ed attraente per il bambino, la
flessibilità nella somministrazione, l’assenza di tempi cronometrati, il fatto che la
maggior parte degli item non richiede capacità verbali. I livelli di valutazione
sono insuccesso – riuscita – emergenza. I programmi d’intervento che conseguono
si basano sulle capacità emergenti: le probabilità di successo di un simile piano
educativo sono alte poiché l’apprendimento inizia ad un livello appropriato al
singolo soggetto in esame. Inoltre, il totale dei comportamenti inusuali o
disfunzionali è quantificato ed indica la gravità delle difficoltà comportamentali.
Vineland – Adaptive Behavior Scales (VABS) (Sparrow et al., 1984)
Si tratta di un’intervista semi-strutturata, ritenuta in maniera unanime la migliore
scala psicometrica che valuta il livello adattivo di un individuo, recentemente
tradotta e tarata su una popolazione italiana. È somministrata da un operatore
specificamente addestrato alla persona che meglio conosce il soggetto, applicabile
dagli 0 ai 18 anni di età. Il comportamento adattivo (CA) indagato riguarda le
attività che un soggetto deve compiere quotidianamente per essere
sufficientemente autonomo e per svolgere in modo adeguato i compiti conseguenti
al proprio ruolo sociale, così da soddisfare le attese dell’ambiente per un individuo
di pari età e contesto culturale. Il livello adattivo è definito dalle performance
tipiche e non dalle abilità: la VABS, dunque, misura le prestazioni e non le
competenze. La premessa per il crescente interesse per il CA è la relativa
incapacità di indici quali il QI di prevedere realisticamente la riuscita nella vita ed
il grado di adattamento sociale degli individui in esame. Inoltre, il CA è un
costrutto modificabile: un adeguato livello adattivo è l’obiettivo adeguato e da ciò
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l’interesse della scala a fini diagnostici, ma anche come strumento utile alla
programmazione di un intervento ed alla verifica della sua efficacia.
La scala è organizzata in 4 item: comunicazione (sub-item: linguaggio recettivo,
espressivo, lettura/scrittura), socializzazione (sub-item: relazioni interpersonali,
gioco e tempo libero, regole sociali), abilità di vita quotidiana (abilità personali,
domestiche, di comunità), abilità motorie (fini e grossolane).
La scala possiede dimostrate validità ed affidabilità.
Recentemente è stato proposto una quantificazione del deficit sociale dei soggetti
autistici attraverso il calcolo dell’ampiezza della discrepanza tra il punteggio
standard della socializzazione alla VABS e l’età mentale. L’ipotesi di questi
ricercatori è che le capacità adattive possano essere l’indice più predittivo di
successo professionale e del livello di indipendenza raggiungibile da individui con
autismo.
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II. LA VALUTAZIONE CLINICA GLOBALE
La valutazione clinica globale si riferisce a quell’insieme di procedure finalizzate
a raccogliere dati utili a completare la conoscenza del bambino e a definire
l’inquadramento nosografico del “caso”. I dati che emergono, infatti, sono critici
per:
♦ effettuare una diagnosi differenziale con altri disturbi mentali
♦ valutare la presenza in co-morbidità di altri disturbi mentali
♦ definire l’inquadramento nell’ambito dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo
♦ individuare eventuali cause
♦ tracciare un profilo funzionale del bambino
♦ accertare la presenza di condizioni mediche associate
♦ approfondire le caratteristiche dell’ambiente
Le fasi fondamentali del processo diagnostico si collocano in due principali aree:
II.1. area degli incontri dedicati ai genitori
1. per conoscerli e farsi conoscere
2. per raccogliere i dati anamnestici
3. per definire il quadro comportamentale attuale del bambino
4. per definire il funzionamento adattivo attuale del bambino
II.2. area degli incontri dedicati al bambino
1. per l’esame obiettivo
2. per l’esame neurologico
3. per l’esame psichiatrico, con particolare riferimento a:
1. ai comportamenti con significato diagnostico
2. al livello cognitivo e linguistico
3. allo sviluppo emotivo
4. al profilo di sviluppo
II.1. INCONTRI DEDICATI AI GENITORI
II.1.1. LA “CONOSCENZA” RECIPROCA
I colloqui con i genitori rappresentano un momento cruciale del processo
diagnostico. Tali colloqui infatti, oltre a fornire informazioni critiche per la
“conoscenza” del soggetto, permettono anche la “conoscenza” dei genitori, in
termini di organizzazione dei ritmi familiari, atteggiamenti affettivo-pedagogici, e
di strategie educative e terapeutiche messe in atto nei confronti dei disturbi del
figlio
Questo processo di conoscenza dei genitori deve essere finalizzato a valutare le
risorse “personali” (capacità di fronteggiare il disagio connesso al disturbo del
figlio), “familiari” (caratteristiche del nucleo familiare, stato socio-economico,
qualità delle relazioni intra ed interfamiliari) ed “ambientali” (disponibilità dei
servizi sul territorio di residenza, aspetti culturali dell’area di appartenenza), cui
riferirsi per la formulazione del progetto terapeutico.
Il processo diagnostico inteso come processo di conoscenza deve essere esteso
alla coppia genitoriale e all’intero sistema famiglia. Ciò permette infatti di valutare
la conoscenza che i genitori hanno del disturbo, il loro livello di consapevolezza
sulla condizione del bambino e le risorse sia in termini emozionali che logistiche.
25
Gli incontri con i genitori si pongono anche come un momento che permette loro
di conoscere l’équipe. Risulta pertanto particolarmente importante garantire una
situazione interattiva che permetta loro di individuare l’équipe come un punto di
riferimento costante anche nelle successive fasi di formulazione e realizzazione
del progetto terapeutico.
II.1.2. L’ANAMNESI
Nella raccolta dell’anamnesi risulta molto utile far riferimento a schemi di
intervista opportunamente elaborati. E’ inoltre consigliabile usare uno schema di
anamnesi il più possibile condivisibile con altri Centri.
Per quel che riguarda il disturbo autistico, la ricostruzione anamnestica deve tener
conto dei punti critici precedentemente riportati. In particolare:
II.1.2.1. ANAMNESI FAMILIARE
• Consanguineità.
• Familiarità per disturbi di interesse neuropsichiatrico o altri disturbi che possono
associarsi con una condizione di autismo:
♦ presenza di autismo, difficoltà di interazione sociale o condizioni cliniche
ad esso assimilabili. In merito a questo ultimo aspetto, particolare
attenzione va riservata all’eventuale presenza nei fratelli e/o nei collaterali
di stili comportamentali indicativi di uno scarso investimento della
interazione e della comunicazione, o di interessi bizzarri per contenuto o
ripetitività;
♦ presenza di ritardi o disturbi di linguaggio, disturbi cognitivi, disturbi di
apprendimento;
♦ presenza di altri disturbi psichiatrici nosograficamente definiti, quali
schizofrenia, disturbi ossessivo-compulsivi, sindrome di Tourette. Va in
particolare approfondita la presenza di disturbi dell’umore, la cui
associazione con l’autismo è stata più volte segnalata.
• Presenza di malattie genetiche o condizioni mediche conosciute. L’associazione
dell’autismo con situazioni cliniche, quali la sindrome dell’X-fragile, la sclerosi
tuberosa, rappresenta un riscontro possibile. Risulta inoltre importante segnalare
qualsiasi altra associazione, anche con malattie “rare”.
II.1.2.2. GRAVIDANZA, PARTO E PERIODO NEONATALE
Le patologie legate alla gravidanza, al parto e al periodo neonatale non sembrano
porsi come fattori eziopatogenetici, in quanto non presentano significative
associazioni con l’autismo. Ciò non di meno un’attenta ricostruzione anamnestica
può permettere di valutare l’eventuale presenza di segni indicativi di una patologia
“intrinseca” del feto, quali un ridotto accrescimento intrauterino, un basso peso
alla nascita, difficoltà di adattamento nell’immediato post-partum. Tali segni,
infatti, esprimendo una scarsa competenza del prodotto del concepimento a
crescere e a nascere possono essere indicativi di una patologia genetica e/o
malformativa.
II.1.2.3. STORIA DELLO SVILUPPO
La ricostruzione delle prime fasi dello sviluppo rappresenta una momento molto
importante. Tale ricostruzione deve essere rivolta a definire non solo l’epoca e le
modalità d’acquisizione delle principali tappe dello sviluppo psicomotorio
(sviluppo posturo-cinetico, sviluppo delle competenze cognitive, sviluppo
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comunicativo-linguistico, sviluppo sociale), ma anche le modalità di
organizzazione delle principali funzioni di base (alimentazione, ritmo sonnoveglia,
reattività/consolabilità) e la presenza di particolari caratteristiche del
profilo temperamentale (molto attento/poco attento; irritabile/tollerante; molto
“allegro”/poco “allegro; molto “curioso”/poco “curioso”).
II.1.2.4. STORIA MEDICA
Tale sezione dell’anamnesi è finalizzata a valutare se sono stati presenti segni e
sintomi indicativi di una condizione medica conosciuta e/o di disturbi
nosograficamente definiti.
Particolare attenzione va posta nell’esplorare l’eventuale presenza di crisi,
condizioni suggestive di encefalopatia. Risulta inoltre consigliabile verificare se
sono state presenti manifestazioni di natura allergica.
Nelle situazioni in cui il soggetto sia già stato preso in carico per situazioni
morbose (diverse dal disturbo autistico), particolare attenzione andrà rivolta alla
diagnosi formulata, all’esito delle indagini effettuate, agli interventi praticati e
soprattutto ai risultati da essi conseguiti.
II.1.2.5. ASPETTI RELATIVI AL DISORDINE ATTUALE
Questa ultima parte dell’anamnesi riguarda la definizione dell’età e delle modalità
di esordio dei segni e sintomi che hanno determinato la consapevolezza nei
genitori di un “serio problema di sviluppo”. Nel caso in cui sia stato il pediatra a
mettere in allarme i genitori segnalando comportamenti a cui loro non avevano
dato eccessiva importanza, è necessario aiutare i genitori a ricostruire le modalità
relazionali del bambino e i suoi stili di comunicazione, facendo riferimento ad
esempi e a situazioni di vita quotidiana. Ciò rende i genitori maggiormente
partecipi del processo diagnostico, consapevoli dell’eventuale irregolarità di
determinati comportamenti e quindi disponibili ad un coinvolgimento “attivo” nel
progetto terapeutico nel caso venga confermato il sospetto inizialmente formulato.
La ricostruzione delle modalità di esordio del quadro deve prendere in
considerazione non solo i sintomi precoci “specifici”, relativi, cioè, all’area
dell’interazione e della comunicazione sociale, ma anche i sintomi “aspecifici”
(difficoltà della suzione, ipereccitabilità, difficoltà dello svezzamento, disturbi del
sonno) che nel loro insieme configurano un “disturbo della regolazione”, riferito
con elevata frequenza nell’anamnesi del soggetto con disturbo autistico.
Particolare attenzione dovrebbe infine essere posta alla eventuale presenza di
regressione e ai possibili eventi “stressanti” connessi in relazione temporale con
l’insorgenza dei disturbi (malattie, incidenti, ospedalizzazioni, morte di uno dei
genitori, bruschi cambiamenti ambientali, etc.).
II.1.3. DEFINIZIONE DEL QUADRO COMPORTAMENTALE ATTUALE DEL BAMBINO
Per ricostruire il quadro comportamentale del bambino è necessario integrare le
notizie che i genitori “spontaneamente” forniscono con alcune domande
specifiche, relative al modo di interagire del bambino con loro genitori e più in
generale con gli altri, sul modo in cui si rivolge loro per chiedere o comunicare,
sull’aderenza alle loro richieste o alle loro proposte di interazione, sui suoi
interessi e sulle modalità con cui organizza le sue attività ludiche.
Per mettere in evidenza alcuni comportamenti “atipici” è necessario talvolta
spiegare ai genitori le caratteristiche e il senso dei comportamenti che si cerca di
approfondire, ricorrendo anche ad esempi.
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In questa parte dell’esame va inserita la somministrazione di
un’intervista strutturata con finalità diagnostiche. L’intervista
maggiormente utilizzata a livello internazionale è l’Autism Diagnostic Interview
(ADI-R). Molto utile risulta anche la Gillian Autism Rating Scale (GARS). Le
caratteristiche di entrambe le scale sono state precedentemente descritte.
II.1.4. DEFINIZIONE DEL FUNZIONAMENTO ADATTIVO ATTUALE DEL BAMBINO
Nella ricostruzione del quadro comportamentale del bambino vanno inoltre rivolte
ai genitori domande specifiche che riguardano il livello adattivo, che si esprime
attraverso le autonomie, le modalità di comunicare i suoi bisogni, la gestibilità nel
quotidiano. Bisogna spesso aiutare i genitori a fornire dati attendibili, invitandoli,
per esempio, a riferire una giornata-tipo e stimolandoli a riflettere su alcuni
situazioni “significative”, quali il momento dei pasti, quello
dell’addormentamento, gli incontri con altri bambini, le uscite, le visite a o da
parte di amici o familiari.
In questa parte dell’esame va inserita la somministrazione di
un’intervista strutturata che permetta di tradurre le informazioni in dati
“misurabili”. L’intervista maggiormente utilizzata è la Vineland Adaptive
Behavior Scales (VABS), le cui caratteristiche sono state precedentemente
descritte.
II.2. INCONTRI DEDICATI AL BAMBINO
II.2.1. ESAME OBIETTIVO
L’esame obiettivo è finalizzato a ricercare l’eventuale presenza di segni e sintomi
riferibili a condizioni mediche nosograficamente definite, con particolare
riferimento a quelle più frequentemente segnalate in associazione con l’autismo
(sclerosi tuberosa, sindrome dell’X-Fragile, Ipomelanosi di Ito, etc.).
Particolarmente importante è la misurazione di parametri auxologici, quali la
statura, il peso e, soprattutto, il perimetro cranico (PC). Di riscontro frequente è
un valore del perimetro cranico superiore al 90° percentile; questo dato può non
essere presente alla nascita, ma evidenziarsi successivamente, con
un’accelerazione del tasso di crescita tra i 2 e i 12 anni (Aylward et al., 2002).
Circa il 25% dei bambini con disturbi dello spettro autistico presenta
macrocefalia.
II.2.2. ESAME NEUROLOGICO
L’esame neurologico standard, finalizzato a valutare l’integrità delle strutture
nervose centrali e periferiche dovrà tener conto non solo dei sintomi “maggiori”
(spasticità, distonie, atassia, paralisi, etc;), ma anche dei segni “minori”
(neurological soft signs). Nell’ambito di questo ultimo tipo di segni rientrano
rilievi aspecifici e di incerta definizione nosografica, quali strabismo, sfumate
asimmetrie di lato dei riflessi o del tono, lievi ipercinesie coreiformi, incertezze
nella coordinazione dinamica generale. Tali segni, oltre a rappresentare una
testimonianza di una possibile disfunzione neurobiologica di fondo, si pongono
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talvolta come utili elementi per una diagnosi differenziale (come nel caso della
sindrome di Asperger, in cui la goffaggine motoria rappresenterebbe un sintomo
considerato patognomonico o in quello della sindrome di Rett, in cui il disturbo
della coordinazione dinamica generale e le manifestazioni parossistiche sono
abituali).
II.2.3. ESAME PSICHIATRICO
L’Esame Psichiatrico rappresenta una fase fondamentale del processo diagnostico
e, nel caso specifico, la più importante.
La metodologia dell’esame è quella abitualmente adottata in
Neuropsichiatria Infantile e prevede le seguenti procedure:
l’osservazione, il colloquio e la somministrazione di reattivi mentali
standardizzati. Vengono di seguito riportati alcuni suggerimenti operativi.
1. L’osservazione. L’osservazione rappresenta la modalità privilegiata e spesso
esclusiva nelle situazioni in cui il bambino è molto piccolo, non verbale e/o non
disponibile ad un aggancio relazionale. Essa prevede due momenti: uno
apparentemente non strutturato e l’altro strutturato (= seduta di gioco).
L’osservazione non strutturata si riferisce al prestare particolare attenzione ai
comportamenti del bambino e dei genitori dal momento in cui entrano nella sala
da visita, fino a quello in cui si congedano. In effetti, la semplice osservazione,
intesa nel senso di limitarsi a “guardare” il bambino, il suo modo di muoversi,
di chiedere, di rispondere alle richieste dei genitori, di esprimere le sue
emozioni, di rapportarsi all’altro e di rapportarsi all’oggetto, senza ricorrere a
manovre direttive o invasive, permette di raccogliere la maggioranza delle
informazioni utili per il “processo di conoscenza”.
L’osservazione strutturata si riferisce, invece, all’organizzazione di uno spazio
ludico, in cui vengono proposte situazioni-stimolo in grado di attivare
comportamenti “misurabili”. Le situazioni-stimolo da proporre variano in
rapporto all’età e al livello di sviluppo. Per i bambini più piccoli, non verbali
e/o con basso livello di sviluppo possono essere proposti: giochi senso-motori
(rincorrersi-prendersi-nascondersi); giochi con la palla, macchinine o
costruzioni; attività espressive con l’uso di matite o plastilina; giochi di finzione
con miniature di bicchieri, piatti o bambolotti. Per bambini più grandi, verbali
e/o con livello di sviluppo relativamente adeguato possono essere proposte
situazioni-stimolo maggiormente strutturate, quali giochi di finzione di
maggiore complessità simbolica (riproposizione di scene di vita quotidiana e
drammatizzazioni) o giochi con regole.
Quanto più l’osservazione è apparentemente libera, in un contesto relazionale
rassicurante, tanto maggiori saranno le possibilità espressive del bambino e,
quindi, gli elementi che si riescono a cogliere. Il termine apparentemente viene
sottolineato per indicare che, nell’organizzazione dell’osservazione, nulla è
lasciato al caso o all’improvvisazione. In effetti l’esaminatore ha uno schema
mentale ben preciso che lo guida. La stessa scelta di lasciare “libero” il bambino
di agire e di interagire risponde ad uno specifico scopo, in accordo ad un
protocollo predefinito.
2. Il colloquio. Il colloquio rappresenta la naturale integrazione
dell’osservazione quando il bambino è in grado di interagire verbalmente. Per
gli adolescenti verbalmente competenti esso diventa la modalità di elezione per
condurre l’esame.
Il colloquio viene condotto in accordo ai suggerimenti comunemente adottati
nell’esame neuropsichiatrico infantile, riassumibili nei seguenti punti:
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♦ organizzare adeguatamente gli spazi in cui deve avvenire il colloquio
♦ favorire la libera espressione del soggetto, creando una dimensione
relazionale in cui non si senta esaminato e, soprattutto, giudicato;
♦ evitare l’adozione di atteggiamenti direttivi, forzando il colloquio su
tematiche che interessano l’esaminatore, ma non il bambino, o nei
confronti delle quali egli sembra mostrare delle resistenze
♦ guidarlo ad esprimersi su alcune tematiche critiche, quali i rapporti con
gli altri, i rapporti con i genitori, la scuola, la natura degli interessi e
delle attività, le emozioni fondamentali (rabbia, felicità, tristezza, paura)
e le situazioni in grado di attivarle.
3. La somministrazione di reattivi mentali standardizzati. Si riferisce agli
“strumenti” abitualmente utilizzati in Neuropsichiatria Infantile per integrare
l’esame psichiatrico del bambino. Come è noto, tali “strumenti” sono costituiti
da prove selezionate in base a studi di validazione su ampi campioni di
popolazione per una valutazione standardizzata. Essi vanno scelti in rapporto
alle aree che si intendono approfondire, all’età del bambino e al suo livello di
sviluppo.
II.2.3.1. VALUTAZIONE DEI COMPORTAMENTI CON SIGNIFICATO DIAGNOSTICO
Questa parte dell’esame prevede la valutazione di quegli aspetti che caratterizzano
il comportamento autistico, così come definito dai criteri diagnostici del DSM-IVTR:
♦ la compromissione qualitativa dell’interazione sociale;
♦ la compromissione qualitativa della comunicazione verbale e non verbale;
♦ le atipie del repertorio di interessi ed attività per contenuto o
perseverazione.
Per i bambini più piccoli e/o non verbali la tecnica di valutazione è
fondamentalmente rappresentata dall’osservazione (seduta di gioco). Risulta
particolarmente importante annotare aspetti, quali:
♦ il modo in cui il bambino entra nella stanza, che può variare dal rifiuto
manifesto, all’inibizione o alla completa disinibizione;
♦ il modo in cui investe lo spazio, che può esprimersi con la ricerca di uno
spazio privilegiato in cui resta “confinato” o, al contrario, con un’attività
motoria frenetica che lo porta a spaziare per tutta la stanza;
♦ il modo in cui esplora gli oggetti presenti nella stanza, che può variare da
una completa indifferenza, ad una manipolazione afinalistica o ad un uso
ritualizzato;
♦ il modo in cui reagisce alla presenza dell’altro, che può essere
caratterizzato da una completa indifferenza, da reazioni di evitamento o da
una viscosità indiscriminata;
♦ il modo in cui risponde alle richieste dell’esaminatore, che può variare da
un’apparente disponibilità ad interagire, ad un’aderenza passiva o a un
completo rifiuto;
♦ le finalità preferenziali della comunicazione, che risulta generalmente di
tipo richiestivo ( = rivolgersi all’altro per ottenere qualcosa) e mai – o
quasi mai – di tipo dichiarativo ( = richiamare l’attenzione dell’altro per
condividere un comune fuoco di interesse);
♦ il modo in cui comunica i propri bisogni, che può variare da segnalatori
poco differenziati (gridare, esprimere malessere, accentuare condotte
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stereotipate) a comportamenti più espliciti (prendere la mano dell’altro e
dirigerla per), fino a gesti funzionali (indicare)
♦ gli interessi e le attività prevalenti, che possono essere rappresentati da
manierismi motori stereotipati e/o dedizione assorbente a particolari
attività e/o interessi bizzarri.
♦ il modo in cui reagisce al cambiamento, che può variare da
un’accentuazione di manierismi motori stereotipati a manifestazioni
esplicite di rabbia o a situazione di angoscia
Per i bambini in grado di interagire verbalmente l’osservazione va integrata con il
colloquio, nell’ambito del quale andranno in particolare valutati aspetti, quali:
♦ l’iniziativa nello scambio verbale, che può essere assente o per contro
“eccessiva”
♦ la presenza di contenuti ideativi perseveranti, che possono esprimersi in
rapporto al livello cognitivo e linguistico con espressioni verbali semplici
o con periodi articolati e complessi incentrati su un’unica tematica;
♦ la coerenza delle risposte, che può essere qualitativamente valida, ma
quantitativamente limitata a risposte molto sintetiche, spesso
monosillabiche. Per contro, può rivelarsi un’aderenza alle domande scarsa
o nulla, con pseudo-risposte che ripropongono tematiche perseveranti
♦ anomalie nell’alternanza dei turni, che sottende uno scarso riconoscimento
dell’altro come partner conversazionale
♦ la pragmatica, che può essere più o meno alterata, fino ad arrivare alla
completa incapacità di padroneggiare le componenti non verbali del
linguaggio
♦ alterazioni della prosodia, dell’intonazione e/o del ritmo dell’eloquio
♦ la presenza di stereotipie verbali
Nessuno degli “aspetti” appena elencati è da solo sufficiente per
formulare una diagnosi di autismo. Questo è uno dei motivi per cui
viene raccomandato l’uso degli strumenti standardizzati con significato
diagnostico precedentemente descritti: in particolare l’ADOS-G, le CARS e
l’ABC. Tali strumenti, infatti, “combinano” i vari aspetti elencati per esprimere un
punteggio su cui formulare il giudizio diagnostico.
La diagnosi finale, comunque, non può essere formulata con il solo
riferimento ad un punteggio, ma deve essere basata sul giudizio clinico
di un neuropsichiatra infantile esperto, che sappia cioè integrare tale punteggio
con tutti gli elementi che derivano dalla valutazione diagnostica generale.
II.2.3.2. VALUTAZIONE DELLE COMPETENZE COGNITIVE E LINGUISTICHE
Si tratta di un’area importante, ma complessa, che va valutata in accordo alla
metodologia prevista in Neuropsichiatria Infantile.
Per quel che riguarda le competenze cognitive, la valutazione prevede non solo il
calcolo del QI totale, ma più in generale la definizione del profilo cognitivo del
soggetto. In particolare, oltre al livello cognitivo globale, andranno valutati i
fattori che concorrono a determinarlo, quali attenzione, memoria, abilità visuopercettive-
motorie e competenze prassiche. Particolarmente importante risulta
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anche la definizione delle modalità senso-percettive privilegiate e delle strategie
preferenzialmente utilizzate per la risoluzione dei problemi.
Per quel che riguarda le competenze linguistiche, è necessario procedere alla
valutazione di tutte le componenti del linguaggio (fono-articolatoria,
grammaticale, semantica, pragmatica), in espressione e in ricezione.
Quando la disponibilità relazionale del soggetto lo permette, vanno utilizzati i
reattivi mentali standardizzati comunemente usati in Neuropsichiatria Infantile,
scelti sulla base dell’età cronologica e del livello di sviluppo del bambino.
Nelle situazioni in cui è impossibile l’uso di tali scale per l’esistenza di una
particolare compromissione delle funzioni adattive o per l’impossibilità di
favorire momenti di interazione e scambio, l’osservazione apparentemente libera
del soggetto può permettere di cogliere nel suo comportamento alcune strategie
risolutive di problemi, indicative del livello di sviluppo (permanenza dell’oggetto,
uso di mezzi per il raggiungimento di uno scopo, abilità prassico-costruttive,
capacità rappresentative, etc.). Tali dati, unitamente ad altre domande rivolte ai
genitori, possono essere comunque riportate su scale di valutazione che
permettono di fornire un livello di sviluppo del bambino.
La valutazione del livello cognitivo e linguistico risulta determinante per:
♦ la diagnosi differenziale con gli altri disturbi pervasivi dello sviluppo (per
esempio, nel Disturbo di Asperger il livello cognitivo e quello linguistico
sono per definizione nella norma)
♦ la diagnosi differenziale con altre disabilità evolutive (per esempio, con il
Ritardo Mentale che può talvolta facilitare comportamenti che solo
apparentemente sono ascrivibili ad un Disturbo Autistico, o con Disturbi
Specifici del Linguaggio, che soprattutto nelle prime fasi di sviluppo
possono tradursi in modalità relazionali atipiche);
♦ la presenza in co-morbidità di un Disturbo Autistico e di Ritardo Mentale
e/o di un Disturbo Specifico del Linguaggio;
♦ la formulazione del progetto terapeutico (per esempio, nella scelta degli
obiettivi dell’intervento e delle strategie utili per il loro conseguimento il
livello cognitivo risulta determinante)
♦ previsioni di carattere prognostico (per esempio, una serie di ricerche
sembra indicare che un buon livello linguistico e, soprattutto, cognitivo è
significativamente correlato con una migliore prognosi sociale)
II.2.3.3. VALUTAZIONE DELLO SVILUPPO EMOTIVO
Questa area si riferisce alla valutazione della tonalità emotiva che si associa ai
comportamenti del soggetto. Particolare attenzione andrà rivolta alla gamma delle
emozioni presentate dal soggetto, alla capacità che egli ha di modularle e alla
congruenza degli stati emotivi con la situazione.
Per i bambini più piccoli e/o non verbali, tali aspetti andranno valutati mediante
l’osservazione, facendo riferimento a:
♦ espressioni mimiche
♦ atteggiamenti posturali
♦ livelli di attività motoria
♦ comportamenti aggressivi auto- e/o etero-diretti
♦ stereotipie
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In particolare andranno valutate le variazioni di tali segnalatori in condizioni di
base e in situazioni emotivamente cariche, rappresentate, ad esempio, dal
cambiamento o da frustrazioni reali o vissute come tali.
Particolarmente importante risulta anche la valutazione del grado di consolabilità,
intesa come la possibilità di calmare il bambino e di riportarlo a forme di
comportamento maggiormente aderenti al contesto.
Nei bambini in grado di interagire verbalmente, il colloquio dovrà prevedere
domande relative alle emozioni di base e alle situazioni in grado di attivarle.
Se l’età cronologica e il livello di maturità del soggetto lo consentono, andranno
utilizzati gli usuali test proiettivi strutturati, tematici e grafici.
La valutazione dello sviluppo emotivo risulta determinante per:
♦ la diagnosi differenziale con quadri psicopatologici, in cui la scarsa
modulazione degli stati emotivi si pone come l’elemento caratterizzante,
mentre le difficoltà relazionali e comunicative sembrano “secondarie” (per
esempio, il Disturbo Reattivo dell’Attaccamento);
♦ la presenza in co-morbidità di un Disturbo Autistico e di altri quadri
psicopatologici;
♦ la formulazione del progetto terapeutico (per esempio, nella scelta degli
obiettivi dell’intervento e delle strategie utili per il loro conseguimento lo
sviluppo emotivo risulta determinante)
♦ previsioni di carattere prognostico (per esempio, una persistente scarsa
modulazione degli stati emotivi può rappresentare un fattore di rischio in
epoca adolescenziale e, più in generale, sulle possibilità di adattamento
all’ambiente)
II.2.3.4. VALUTAZIONE DEL PROFILO FUNZIONALE
In aggiunta ai dati forniti dai genitori risulta particolarmente importante valutare
direttamente le aree di forza e le aree di debolezza del bambino in alcune attività
della vita quotidiana. In effetti, questa valutazione risulta critica in fase di
TRATTAMENTO, per costruire sul profilo rilevato un programma abilitativo
personalizzato. Ciò non di meno, anche in fase diagnostica tale pratica risulta
particolarmente utile, sia per completare la “conoscenza” del bambino, sia per
disporre di dati utili di riferimento per valutare nei periodici controlli l’andamento
generale del percorso di crescita del soggetto.
In questa parte dell’esame va inserita la somministrazione di
un’osservazione strutturata che permetta di tradurre le informazioni in
dati “misurabili”. L’osservazione maggiormente utilizzata è il Psycho-Educational
Profile (PEP-R), le cui caratteristiche sono state precedentemente descritte.
III. INDAGINI STRUMENTALI E DI LABORATORIO
La diagnosi di autismo è basata su criteri esclusivamente comportamentali: non
esistono pertanto indagini strumentali e/o di laboratorio con significato
diagnostico, né un marker che identifichi il disturbo.
Vanno tenute in considerazione le seguenti indicazioni:
S16
33
θ le indagini audiometriche (esame audiometrico comportamentale, potenziali
evocati uditivi, ABR) vanno effettuate in tutti i casi (Filipek et al., 2000);
θ le indagini genetiche (analisi del cariotipo ad alta risoluzione, analisi del
DNA), vanno effettuate quando ricorre almeno una delle seguenti situazioni:
♦ familiarità per definite condizioni genetiche;
♦ presenza di un ritardo mentale ad eziopatogenesi sconosciuta;
♦ presenza di tratti dismorfici e/o di malformazioni a carico di vari organi ed
apparati;
♦ necessità di una consulenza, allargata alla famiglia, in vista di una nuova
gravidanza.
θ le indagini metaboliche vanno effettuate quando ricorre almeno una delle
seguenti situazioni:
♦ familiarità per definite patologie metaboliche;
♦ presenza nell’anamnesi personale di episodi di letargia, di vomito ciclico o
di crisi epilettiche ad insorgenza precoce;
♦ presenza di un ritardo mentale ad eziopatogenesi sconosciuta;
♦ presenza di tratti atipici, dismorfici o altra evidenza di specifici difetti
metabolici.
θ l’EEG va richiesto quando ricorre una delle seguenti situazioni:
♦ presenza di crisi epilettiche clinicamente manifeste;
♦ presenza di episodi parossistici di dubbia natura;
♦ presenza di una storia di “regressione” del linguaggio;
θ le neuroimmagini (TC cranio, RM encefalo) non hanno indicazioni per una
effettuazione routinaria, dal momento che non si è finora trovata alcuna
associazione specifica a anomalie strutturali cerebrali e autismo. Anche in
presenza di macrocefalia, non è indicato l’utilizzo di tecniche di neuroimaging, a
meno che non siano presenti contemporaneamente tratti dismorfici o segni
neurologici focali. Tecniche di neuroimaging funzionale (RM funzionale, PET,
SPECT) sono attualmente utilizzate solo come strumenti di ricerca.
θ indagini per le intolleranze alimentari vanno effettuate in presenza dei sintomi
che possono suggerire una situazione di questo genere;
θ altri tipi di indagini andranno programmate in rapporto ad indicazioni derivanti
dall’Esame Clinico, suggestive di quadri patologici associati in comorbidità, per i
quali le indagini rappresentano un elemento di conferma diagnostica. Andranno,
inoltre, tenute in considerazione particolari notizie riferite dai genitori
nell’Anamnesi relative a comportamenti di dubbia interpretazione: per esempio, in
caso di PICA dovrebbe essere valutata la possibile presenza di un’intossicazione
da piombo (Filipek et al., 2000).
IV. LA DIAGNOSI DIFFERENZIALE
La diagnosi di Autismo, in quanto basata su criteri esclusivamente
comportamentali, può porre problemi di diagnosi differenziale con altre categorie
nosografiche ugualmente basate su criteri comportamentali. In altri termini, capita
spesso di confrontarsi con una serie di comportamenti “atipici” presenti oltre che
34
nell’autismo anche in altre categorie nosografiche (per esempio, stereotipie,
condotte di evitamento sociale, difficoltà linguistiche, manifestazioni ossessivocompulsive,
etc.). Il problema che si pone in tali situazioni è definire se:
1) i comportamenti atipici sono ascrivibili esclusivamente ad un Disturbo
Autistico, che nel caso specifico può assumere un’espressività fenotipica diversa
da quella comunemente rilevata;
2) i comportamenti atipici sono meglio ascrivibili ad un’altra categoria
nosografica e solo apparentemente simulano un quadro autistico;
3) i comportamenti atipici sono indicativi della co-esistenza di un Disturbo
Autistico e di un’altra categoria nosografica.
I maggiori problemi si verificano abitualmente con le seguenti condizioni:
Ritardo Mentale. La diagnosi differenziale fra Disturbo Autistico e Ritardo
Mentale necessita di alcune considerazioni preliminari in relazione all’elevata
frequenza con cui le due condizioni coesistono. Circa la metà delle persone con
autismo presenta nei test intellettivi un punteggio di QI che li classifica nel ritardo
mentale grave o gravissimo, il 30% nel ritardo mentale lieve e medio e il 20%
presenta un funzionamento cognitivo di tipo borderline o nella norma. Se ne
deduce che circa 3 bambini autistici su 4 presentano anche un ritardo mentale.
Una frequenza così elevata di comorbidità ha da sempre sollevato notevoli
discussioni circa i rapporti fra autismo e ritardo mentale.
Facendo riferimento alla distribuzione del QI in una popolazione di soggetti con
autismo, le maggiori incertezze diagnostiche riguardano gli estremi della curva.
Ad un’estremità di questa distribuzione si collocano i casi in cui il ritardo mentale
è grave. In tali situazioni risulta sempre molto difficile stabilire se alcuni
comportamenti atipici siano riferibili “semplicemente” al basso livello intellettivo.
Pertanto, vi è un unanime consenso circa la difficoltà di una diagnosi differenziale
per livelli cognitivi inferiori ad un’età mentale di 2 anni (Lord et al., 1989) e,
peraltro, alcuni gruppi di ricerca ritengono che la diagnosi di autismo dovrebbe
essere limitata ai casi nei quali il quoziente intellettivo non sia inferiore a 30.
All’altra estremità della curva di distribuzione del QI (verso i valori più alti) si
collocano i casi abitualmente definiti come autismo ad alto funzionamento o
sindrome di Asperger. La segnalazione di tali casi ai Servizi non avviene in
genere prima dei 5-6 anni e raramente è determinata da “comportamenti autistici”,
ma piuttosto da difficoltà di apprendimento collegate al disturbo neurocognitivo
che fa parte integrante del quadro clinico. In queste situazioni, peraltro, la
definizione dei rapporti fra Autismo e Ritardo Mentale è resa ancora più difficile
dalla sovrapposizione di altre situazioni che richiedono una diagnosi differenziale
(per esempio, disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, organizzazione patologiche
della personalità, etc.).
E’ evidente, pertanto, che per queste situazioni “estreme” solo una valutazione
clinica esaustiva permette, dopo una disanima ragionata dei dati rilevati, un
orientamento diagnostico che risponda non solo alle esigenze nosografiche (in
quale “categoria” collocare il caso), ma soprattutto alla necessità di formulare un
piano di trattamento personalizzato.
Anche se la natura dell’associazione autismo-ritardo mentale rappresenta un
problema ancora aperto, sul piano clinico descrittivo il riferimento ad aspetti,
quali la socievolezza, la disponibilità allo scambio relazionale, il piacere di essere
35
e di partecipare (assenti nell’autismo, presenti nel ritardo mentale,
indipendentemente dal grado di compromissione intellettiva) permettono di
differenziare le due condizioni e, nel contempo, di valutarne l’eventuale
coesistenza. In altri termini, nel ritardo mentale le abilità sociali e comunicative
sono corrispondenti al livello di sviluppo globale del bambino.
Ipoacusia. Soprattutto nelle prime fasi di sviluppo, problemi uditivi possono
tradursi in modalità relazionali e stili comunicativi atipici che simulano un quadro
autistico. Per tale motivo tutti i programmi di intervento precoce includono fra le
varie “raccomandazioni” l’effettuazione di esami audiometrici specialistici.
Considerando, infatti, la particolare fase di sviluppo (0-3 anni), l’audiometria
obiettiva può permette di accertare un deficit uditivo. Va inoltre segnalato che la
normalità di esami audiometrici praticati in epoca neonatale o nelle primissime
fasi dello sviluppo, non esime dalla necessità di un approfondimento
audiometrico, per la possibilità che il deficit uditivo possa essersi verificato
successivamente (otiti). Peraltro, anche quando sono soddisfatti i criteri per una
diagnosi di Disturbo Autistico, la definizione del profilo uditivo del soggetto
risulta particolarmente importante per la formulazione del progetto terapeutico.
Sindrome di Landau-Kleffner. Si tratta di una forma di epilessia caratterizzata
da un’afasia acquisita. La regressione nel linguaggio che si osserva potrebbe
creare dubbi diagnostici rispetto all’autismo regressivo. Il quadro
elettroencefalografico e l’assenza dei comportamenti che caratterizzano la triade
sintomatologia è dirimente.
Disturbi Specifici del Linguaggio. I bambini con disturbo di linguaggio in cui la
componente recettiva è fortemente compromessa possono presentare una
mancanza di attenzione all’altro e al linguaggio, che, unitamente alla presenza di
condotte di isolamento, determinano soprattutto nelle prime fasi di sviluppo (0-3
anni) seri dubbi diagnostici. In alcuni casi, solo progressivamente, nel corso dello
sviluppo, si definisce la reale natura del problema (Waterhouse, 1996). In tutte le
fasi dello sviluppo, tuttavia, le abilità sociali sono meglio conservate (Rutter et al.,
1992).
Schizofrenia. Occasionalmente la Schizofrenia può insorgere verso i 13 anni
(Early Onset Schizophrenia) e in casi rari anche prima (Very Early Onset
Schizophrenia): in entrambi i casi, il quadro clinico risulta caratterizzato dalla
presenza di sintomi produttivi (deliri ed allucinazioni) che permettono
agevolmente una diagnosi differenziale (AACAP, 2001; Jacobsen et al., 1998;
Nicholson et al., 2000). Va, tuttavia, sottolineato che una delle caratteristiche di
tali forme precoci, rispetto alla schizofrenia “classica”, è rappresentata da una fase
prodromica meno acuta e più insidiosa e da una maggiore incidenza di precedenti
morbosi, in cui prevalgono difficoltà di inserimento nel gruppo, tendenza
all’isolamento, disinvestimento del linguaggio e cadute prestazionali (Hollis,
2003; McClellan et al., 1998; Schaeffer et al., 2002). Nella maggioranza dei casi,
tuttavia, la storia naturale dei due disturbi è completamente differente: (a) la
schizofrenia è preceduta da un periodo di sviluppo normale, mentre l’autismo
insorge per definizione nei primi anni di vita; (b) la schizofrenia infantile si
36
complica precocemente con l’insorgenza di sintomi produttivi (deliri,
allucinazioni), mentre l’autismo, per definizione, non presenta “sintomi” di questo
tipo.
Mutismo selettivo. Si tratta di un disturbo che, per definizione, è limitato ad
alcuni contesti, nei quali, peraltro, risulta prevalentemente interessata la
comunicazione, mentre la compromissione dell’interazione sociale e le atipie
degli interessi non assumono mai connotazioni tali da soddisfare i criteri del
Disturbo Autistico.
Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Limitatamente ai casi con buon funzionamento
cognitivo, alcuni bambini o ragazzi con autismo possono presentare caratteristiche
relative ad interessi e comportamenti inusuali, oltre che la sottomissione a routine
e rituali rigidi, che possono creare dubbi diagnostici rispetto al disturbo ossessivocompulsivo.
Le abilità sociali in questo ultimo caso sono però di solito meglio
conservate, le eventuali anomalie socio-comunicative sono diverse dall’autismo.
Disturbo Reattivo dell’Attaccamento. Storie di violenza e abuso gravi, incuria
grave e abbandono, possono originare in bambini nella prima infanzia sindromi da
estrema deprivazione sociale e isolamento ambientale. I deficit sociali,
comunicativi e le condotte di isolamento con comportamenti stereotipati
solitamente associati, scompaiono in presenza di un ambiente più appropriato.
Disturbo Schizoide di Personalità. In questo caso l’isolamento è relativo ad
alcuni contesti, mentre la capacità di relazionarsi è conservata in altri.
Disturbo Evitante di Personalità. I comportamenti di ritiro dalla relazione, fino
all’isolamento, sono in questo caso scatenati dall’ansia nel contatto con l’altro in
situazioni sociali.
V. LA RESTITUZIONE
La Restituzione è la fase che conclude il processo diagnostico e prevede la
comunicazione ai genitori della diagnosi e delle relative indicazioni di
trattamento. Si tratta, come è evidente, di un momento obbligato in qualsiasi
percorso diagnostico, ma rappresenta un momento particolarmente delicato e
assume per il disturbo autistico un significato particolare.
La Restituzione deve essere preceduta da un incontro fra gli operatori che sono
stati coinvolti nell’iter diagnostico. Tale incontro permette di:
♦ scambiarsi informazioni circa il materiale raccolto;
♦ formulare la diagnosi;
♦ preparare l’incontro con i genitori.
Le reazioni dei genitori di fronte alla diagnosi di autismo sono spesso
drammatiche: sconforto all’idea che il bambino sia ammalato, preoccupazione per
sviluppi ancora ignoti e nello stesso tempo speranza di una possibile guarigione
spontanea o dovuta a cure mediche, illusione che la causa della malattia sia dovuta
37
ad eccessiva ansietà dei genitore stesso, o scetticismo rispetto alla eccessiva
sicurezza del sanitario.
L’incontro con i genitori deve innanzitutto prevedere una formulazione chiara del
tipo e della natura del disturbo presentato dal figlio, delle possibili evoluzioni a
distanza, del panorama degli approcci terapeutici, delle risorse che offre il
territorio di appartenenza, delle caratteristiche del percorso diagnosticoterapeutico
abitualmente previsto nella fase successiva alla prima diagnosi.
La mal definizione e la mancata conoscenza, nella maggioranza dei casi, degli
aspetti eziopatogenetici del disturbo, rappresenta un elemento che rende difficile
nei genitori la comprensibilità della diagnosi ed alimenta il loro disorientamento.
In questa prospettiva risulta particolarmente utile illustrare ai genitori e
commentare con essi la diagnosi, tenendo conto delle difficoltà di far
comprendere una situazione clinica di per sé complessa.
Successivamente vengono individuati con i genitori i punti critici su cui deve
articolarsi il Progetto Terapeutico, le sue finalità e la programmazione dei
periodici incontri di controllo.
Sotto questo aspetto, la peculiarità del colloquio di Restituzione è riconoscibile
nel fatto che esso non rappresenta un momento conclusivo, ma il momento di
partenza per iniziare con i genitori un percorso da fare insieme.
Nel comunicare la diagnosi bisogna soprattutto far percepire ai genitori la
disponibilità del servizio a porsi come punto di riferimento per la realizzazione del
progetto terapeutico.
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LINEE GUIDA PER LO SCREENING
I. ETA’ DI ESORDIO DELL’AUTISMO
Il DSM-IV-TR inserisce fra i criteri diagnostici un esordio prima dei 3 anni di
vita, che si esprime con ritardi o atipie nelle aree dell’interazione sociale e/o della
comunicazione e/o del gioco simbolico (APA, 2002).
B. Ritardi o funzionamento anomalo in almeno una delle seguenti aree, con
esordio prima dei 3 anni di età: (1) interazione sociale, (2) linguaggio usato
nella comunicazione sociale, o (3) gioco simbolico o di immaginazione.
Pertanto, il quadro clinico conclamato si realizza progressivamente nel tempo
(comunque entro il 3 anno di vita), con segni e sintomi che tuttavia sono spesso
subdoli e mal definiti (Baird et al., 2001).
I bambini autistici non seguono i modelli tipici dello sviluppo infantile, ma
all’interno del gruppo le modalità con cui procede lo sviluppo possono essere
differenti. Le descrizioni cliniche ad esempio confermano differenti modalità di
esordio della sintomatologia:
♦ solo in una minoranza di casi i genitori riferiscono la presenza, fin dai
primi mesi di vita, di chiari sintomi autistici: i genitori rilevano che il
bambino fin dalla nascita sembra “diverso”, si accorgono precocemente
dello sguardo sfuggente, dell’assenza del sorriso, del disinteresse per
l’altro e per l’oggetto o viceversa dell’intensa attenzione su un oggetto, per
lungo tempo;
♦ nella maggioranza dei casi, tuttavia, i sintomi riferibili ad un disturbo
dell’interazione sociale e della comunicazione cominciano a diventare
particolarmente evidenti nel periodo compreso fra i 10 ed i 20 mesi: il
bambino non cerca l’altro per condividere esperienze; chiamato, non
risponde; non aderisce alle richieste dell’altro, né si diverte a “mettersi in
mostra”; non usa alcuna parola; rifiuta di partecipare alle attività suggerite
dall’altro, per dedicarsi invece a quelle scelte da lui, che peraltro risultano
spesso atipiche;
♦ in un certo numero di casi i genitori riferiscono di aver acquisito la
consapevolezza di un serio problema di sviluppo solo dopo i 20 mesi, in
relazione soprattutto alla mancata acquisizione del linguaggio e alla
comparsa di comportamenti di ritiro e di isolamento, definiti come
regressione. Un bambino affettuoso e “chiacchierone” diventa silenzioso,
chiuso in se stesso, violento o autolesionista, rifiuta le persone, si
comporta stranamente e perde il linguaggio e le abilità sociali che aveva
già acquisito. I genitori spesso riferiscono uno sviluppo relativamente
adeguato fino alla comparsa dei primi sintomi di autismo; in molti di
questi casi, tuttavia, l’approfondimento anamnestico permette di rilevare
che anche in epoche precedenti il piccolo presentava una certa atipia nei
39
rapporti sociali ed uno scarso interesse per gli oggetti o una tendenza ad un
loro uso improprio.
Studi di filmati familiari di bambini che successivamente hanno ricevuto una
diagnosi di autismo hanno confermato l’attendibilità delle descrizioni dei genitori
(Baranek, 1999; Brown et al., 1998; Osterling et al., 1998). In particolare, tali
studi hanno evidenziato che:
♦ Alcuni bambini presentano, fin dai primi mesi di vita, deficit delle
competenze interattive e comunicative (forma ad espressività
crescente).
♦ Alcuni bambini evidenziano un apparente sviluppo normale sul
versante comunicativo ed interattivo, ma nel secondo anno di vita
presentano una perdita di tali competenze (autismo con regressione).
♦ Alcuni bambini presentano un ritardo nelle competenze interattive e
comunicative fin dai primi mesi di vita, seguito tuttavia nel secondo
anno di vita da un arresto dello sviluppo e da una perdita delle poche
competenze acquisite.
II. LA SORVEGLIANZA SULLO SVILUPPO
La maggioranza degli autori è concorde nell’affermare che è possibile formulare
una diagnosi certa di autismo all’età di 2 anni (Charman et al., 2002; Cox et al.,
1999; Lord, 1995; Stone et al., 1999).
A fronte di questo dato va considerato che la diagnosi viene ancora oggi formulata
ad un’età di circa 4-5 anni (con 2 o 3 anni di ritardo rispetto alle prime
manifestazioni sintomatologiche). Sulla base di tali rilievi diverse Società
Scientifiche Pediatriche hanno elaborato una serie di raccomandazioni per
favorire la sensibilizzazione degli operatori di primo livello (pediatri di famiglia)
nei confronti degli indicatori comunicativo-relazionali utili per un precoce
orientamento diagnostico (AAP, 2001).
I pediatri, infatti, hanno l’opportunità di essere i primi sanitari contattati da
genitori preoccupati per lo sviluppo o il comportamento del loro bambino.
Le preoccupazioni dei genitori non vanno mai sottovalutate.
E’ stata in particolare “raccomadato” ai pediatri di essere più attenti alle eventuali
preoccupazioni espresse dai genitori relative alla regolarità dello sviluppo emotivo
e sociale del loro bambino. Esse si sono rivelate in vari studi come fonti di
informazione molto attendibili, dotate di notevole sensibilità e specificità: i
genitori andrebbero sempre ascoltati con attenzione quando parlano dello sviluppo
del loro bambino e di eventuali difficoltà.
In linea molto generale le preoccupazioni dei genitori cui il pediatra dovrebbe
prestare particolare attenzione possono essere raggruppate in tre aree:
R9
40
Preoccupazioni legate allo sviluppo sociale:
“Non sorride quando gli si sorride o quando si gioca con lui”
“Evita o presenta scarso contatto di sguardo”
“Sembra vivere in un suo mondo”
“Si comporta come se non fosse consapevole della presenza e degli spostamenti degli
altri”
“Sembra escludere gli altri e gli avvenimenti esterni”
“E’ eccessivamente indipendente”
“Non è interessato agli altri bambini”
“Preferisce giocare da solo”
“Tiene le cose per se stesso e non ama condividerle con gli altri”
Preoccupazioni legate allo sviluppo della comunicazione non verbale e verbale:
“Non dirige l’attenzione a qualcosa che gli viene indicato”
“Non fa ciao-ciao”
“A volte sembra sordo”
“Qualche volta sembra ascoltare, altre volte no”
“Non risponde quando lo si chiama per nome”
“Il linguaggio è ritardato”
“Non chiede ciò che vuole”
“Prima diceva alcune parole, ma ora non lo fa più”
Preoccupazioni legate al modo di comportarsi:
“Non gioca con i giocattoli come gli altri bambini”
“Odora o lecca i giocattoli”
“Resta attaccato ad un’attività in maniera ripetitiva”
“Presenta un attaccamento esagerato ad un oggetto”
“Si fissa su alcuni particolari”
“Mette in fila le cose”
“Cammina sulle punte”
“Presenta movimenti bizzarri come dondolarsi o agitare le mani”
“E’ ipersensibile nei confronti di alcuni suoni e/o altri stimoli”
“Si mostra insensibile a ustioni o contusioni”
“Ha delle esplosioni di ira senza apparente motivo”
“E’ iperattivo, poco collaborante o francamente oppositivo”
Peraltro, nelle situazione in cui i genitori riportano preoccupazioni in una di
queste tre aree, dovrebbero essere sistematicamente investigate le altre aree con
domande specifiche.
Anche quando i genitori non riferiscono alcuna preoccupazione, il
pediatra dovrebbe comunque valutare sistematicamente, nell’ambito dei
periodici bilanci di salute, la regolarità dello sviluppo globale e l’eventuale
presenza di anomalie di sviluppo della interazione sociale e della comunicazione.
Nell’ambito dei periodici controlli il pediatra di famiglia dovrebbe comunque
rivolgere semplici domande ai genitori relative al comportamento del bambino.
In particolare, possono essere suggerite per ciascuna area le seguenti domande:
R10
41
“Il vostro bambino…
Socializzazione
… vi abbraccia come gli altri bambini?”
… vi guarda quando gli parlate o giocate con lui?”
… sorride in risposta al vostro sorriso?”
… partecipa a giochi di condivisione di attività?”
… effettua giochi di semplice imitazione, quali batti-batti le
manine o cucù- settete”?
… mostra interesse per gli altri bambini?”
… preferisce giocare da solo?”
… agisce e si comporta come se fosse in un mondo tutto suo?”
Comunicazione
… fa cenni con il capo per dire si o no ?”
… guida un adulto prendendolo per mano e la conduce verso la
cosa che desidera?”
… indica con il dito per mostrarvi qualcosa?”
… cerca di attirare la vostra attenzione su un oggetto o un evento
interessante?”
… vi porge mai un oggetto semplicemente per mostrarvelo?”
… tende a mostrare le cose agli altri?”
… è capace di comunicare ciò che vuole?”
… sembra ignorarvi quando viene chiamato per nome?”
… sembra ignorare i comandi?”
… presenta difficoltà nell’eseguire semplici consegne?”
… utilizza il linguaggio con voi o con altri bambini?”
… parla come i bambini della sua età?”
… presenta qualcosa di bizzarro nel linguaggio?”
… usa in maniera meccanica, ripetitiva o ecolalica il linguaggio?”
… memorizza stringhe di parole che ripete in situazioni
inappropriate?”
Interessi ed attività
… presenta movimenti ripetitivi, stereotipati o bizzarri?”
… mostra una dedizione assorbente ad interessi ristretti?”
… è maggiormente interessato solo a determinati dettagli di un
giocattolo?”
… tende ad utilizzare gli oggetti sempre nello stesso modo?”
… mostra un attaccamento esagerato ad un oggetto insolito?”
… è capace di utilizzare i giocattoli in maniera appropriata?”
… imita le azioni delle altre persone?”
… è in grado di effettuare giochi di finzione, quali far finta di bere
o di dar da mangiare a un bambolotto (se di età superiore ai 2
anni)?”
Indicazioni assolute per una immediata valutazione più approfondita dello
sviluppo ed in particolare degli aspetti socio-comunicativi e simbolici, derivano
dal rilievo delle seguenti “irregolarità”:
• assenza di lallazione dopo i 12 mesi,
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• assenza di gesti, quali indicare, mostrare, fare “ciao”, dopo i 12 mesi,
• assenza di parole singole dopo i 16 mesi,
• assenza di associazioni spontanee di due parole dopo i 24 mesi,
• perdita di competenze già acquisite nelle aree della comunicazione, del
linguaggio e/o della socialità, indipendentemente dall’età in cui essa si
verifica.
Nell’ambito dei periodici bilanci di salute, all’età di 18 mesi e all’età di
24 mesi dovrebbe essere somministrato un test screening standardizzato
per lo sviluppo comunicativo-sociale.
Sotto questo aspetto una proposta che sembra aver raccolto il maggior numero di
consensi è rappresentata dall’uso della Checklist for Autism in Toddlers
(CHAT) (Baron-Cohen et al., 1992). Si tratta di un test screening elaborato in
Gran Bretagna ed ampiamente utilizzato in diversi Paesi. Esso va somministrato a
bambini di 18 mesi, da parte del pediatra, nell’ambito dei periodici bilanci di
salute (0-3 anni). Prevede 9 domande da rivolgere ai genitori e l’osservazione
diretta di 5 comportamenti. I 14 item misurano vari aspetti dell’imitazione, del
gioco di finzione e dell’attenzione condivisa. La CHAT, è stata utilizzata su oltre
16000 bambini ed ha mostrato un’alta specificità ed un’elevata predittività (Baird
et al., 2000). Peraltro, sulla base delle esperienze effettuate sono stati individuati
alcuni item-chiave, in rapporto ai quali il punteggio ottenuto permette di esprimere
un orientamento per :
♦ “Alto Rischio” di autismo (caduta in tutti gli item-chiave)
♦ “Lieve Rischio” di autismo (caduta in definiti item-chiave)
♦ Rischio per altri problemi di sviluppo (caduta in diversi item, ma non in
quelli previsti per un rischio di autismo)
♦ Nessun Rischio
A differenza della specificità e della predittività, la sensibilità sembra
insoddisfacente: ciò significa che bambini che all’età di 18 mesi sembrano
presentare uno sviluppo “normale” possono poi mettere in evidenza, in epoche
successive, comportamenti riferibili ad un Disturbo Autistico.
Un altro test screening molto utilizzato è la Modified – Checklist for Autism in
Toddlers (M-CHAT) (Robins et al., 2001). Si tratta, in pratica, della versione
americana della CHAT, la quale prevede una lista di 23 comportamenti a cui i
genitori rispondono con un SI/NO. Essa, pertanto, non prevede l’intervento del
pediatra con domande specifiche nè l’osservazione “diretta” di determinati
comportamenti. Va somministrata a 24 mesi e, a tale età, ha dimostrato una buona
validità (Wong et al., 2004).
III. L’INVIO AI SERVIZI DI NPI
Nei casi in cui il pediatra ritiene che il bambino presenti un quadro
comportamentale riferibile ad un Disturbo Autistico, deve richiedere una visita
specialistica (neuropsichiatra infantile) per l’eventuale conferma diagnostica.
Nei casi dubbi, va tenuto conto delle preoccupazioni dei genitori. In particolare,
possono essere previste le seguenti possibilità:
R11
43
POSSIBILITÀ PROVVEDIMENTO
il pediatra ha un sospetto ed i genitori sono
preoccupati
viene richiesta una visita specialistica
il pediatra ha un sospetto, ma i genitori non
riferiscono alcuna preoccupazione
il pediatra comunica ai genitori i suoi
sospetti; fissa un controllo dopo 4
settimane; invita i genitori nel frattempo ad
osservare i comportanti che gli hanno
creato dei dubbi. Se dopo 4 settimane
persiste il sospetto, viene richiesta una
visita specialistica.
il pediatra non individua alcun segno
sospetto, ma i genitori sono preoccupati
il pediatra prende atto delle preoccupazioni
dei genitori e fissa un controllo dopo 4
settimane. Se dopo 4 settimane non si
registra un’evoluzione nei comportamenti
segnalati, viene richiesta una visita
specialistica.
L’importanza di un’identificazione e un invio precoci sono ormai ampiamente
documentate da una serie di ricerche.
Formulare tempestivamente una diagnosi di autismo significa:
♦ programmare un intervento precoce. Una serie di ricerche ha messo in
evidenza che la possibilità di organizzare in maniera adeguata tempi, spazi
ed attività del bambino nella fascia di età precoce (2-4 anni) riesce ad
incidere significativamente, nell’immediato, sulle potenzialità del bambino
e in prospettiva sulla qualità dei suoi comportamenti adattivi, da cui
dipende la qualità di vita dell’intero sistema famiglia;
♦ rispondere ad una serie di quesiti di natura epidemiologica. A fronte,
infatti, delle iniziali stime che indicavano una prevalenza di 4-5/10000,
recenti ricerche hanno messo in evidenza valori sensibilmente più elevati,
valutati nell’ordine di 1-2/1000. L’autismo infantile, pertanto, potrebbe
essere un disturbo molto più frequente di quanto ritenuto in passato;
♦ prevenire quella situazione di generale malessere dell’intero sistema
famiglia, legata al disorientamento dei genitori che sono solitamente i
primi a notare comportamenti strani nel loro bambino, ma non riescono ad
avere una spiegazione dei comportamenti atipici del bambino. Peraltro,
quando essi insistono sull’opportunità di un approfondimento diagnostico,
medici, amici, parenti forniscono spesso risposte evasive (“aspettiamo un
altro po’ di tempo, poi decidiamo”, “forse sta attraversando un periodo un
po’ difficile: sente ancora il trauma della nascita del fratellino”),
pseudorassicuranti (“ogni bambino ha i suoi tempi di maturazione e i suoi
stili comportamentali”, “può parlare, solo non desidera farlo”) o
francamente colpevolizzanti (“siete voi genitori con la vostra ansia che
spingete il bambino ad assumere questo tipo di comportamenti”); il
pediatra deve pertanto essere sempre attento alle preoccupazioni che gli
vengono riferite dai genitori circa lo sviluppo della comunicazione e della
socializzazione.
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♦ facilitare l’accesso ai familiari del bambino colpito a indagini genetiche
per eventuali futuri figli e garantire un livello di attenzione e sorveglianza
maggiore per i fratelli del bambino colpito (il rischio di ricorrenza del
disturbo nella stessa famiglia è da 50 a 100 volte superiore alla prevalenza
nella popolazione generale).
I fratelli di bambini autistici dovrebbero essere monitorati con
particolare attenzione rispetto all’emergenza e allo sviluppo di abilità
sociali, comunicative e di gioco e alla presenza di comportamenti maladattivi.
Considerando le nozioni sulla familiarità psichiatrica e neuropsicologica nel
disturbo autistico, in questi bambini bisognerebbe porre inoltre particolare
attenzione alla eventuale presenza di ritardi di linguaggio, difficoltà di
apprendimento, problemi di interazione sociale, sintomi di ansia e depressione.
R12
45
LINEE GUIDA PER IL TRATTAMENTO
I. CONSIDERAZIONI GENERALI
L’Autismo è un disordine dello sviluppo biologicamente determinato che si
traduce in un funzionamento mentale atipico che accompagna il soggetto per tutto
il suo ciclo vitale.
La finalità a lungo termine del progetto terapeutico è quella di favorire
l’adattamento del soggetto al suo ambiente, il migliore possibile in
rapporto alle specifiche caratteristiche del suo essere autistico. Ciò, al fine di
garantire una soddisfacente qualità di vita al soggetto e all’intero sistema famiglia.
In questa prospettiva, l’intero arco dell’età evolutiva è il periodo durante il quale
vengono messi in atto una serie di interventi finalizzati a:
♦ correggere comportamenti disadattivi;
♦ pilotare la spinta maturativa per facilitare l’emergenza di competenze
(sociali, comunicativo-linguistiche, cognitive) che possano favorire il
futuro adattamento del soggetto all’ambiente in cui vive;
♦ favorire lo sviluppo di un soddisfacente adattamento emozionale (controllo
degli impulsi, modulazione degli stati emotivi, immagine di sé).
Il raggiungimento di tale finalità prevede la definizione di una serie di obiettivi
intermedi, che si articolano lungo una sorta di percorso “evolutivo”: il percorso
terapeutico. Questa prospettiva diacronica, indica la necessità di aggiornare
periodicamente gli obiettivi in rapporto ai cambiamenti che, comunque, si
verificano durante lo sviluppo e che riguardano: l’espressività del quadro clinico;
il bambino inteso come persona; la famiglia e l’intero contesto ambientale.
La complessità del quadro clinico, implicitamente espressa dal termine
“pervasivo”, comporta la necessità di individuare più obiettivi intermedi, ciascuno
dei quali può prevedere più interventi per la sua realizzazione (per esempio, per
un bambino di 6 anni, l’obiettivo di migliorare le capacità espressive (1°
obiettivo) può comportare un intervento sulla facilitazione delle competenze
comunicativo-linguistiche, un intervento sul sistema attentivo, un intervento sui
comportamenti disadattivi, etc., e contemporaneamente l’obiettivo di favorire
l’inserimento scolastico (2° obiettivo) può comportare un intervento sul bambino,
un intervento sugli insegnanti, un intervento sui coetanei, etc.).
La scelta degli obiettivi intermedi durante il percorso terapeutico – e quindi dei
vari interventi necessari – deve essere legata al principio di farsi guidare da “ciò
che è possibile” e da “ciò che è utile”. Ciò significa che in qualsiasi fase del
percorso terapeutico è necessario partire sempre dalla definizione del profilo
funzionale del soggetto che permette di individuare le aree di forza e le aree di
debolezza su cui costruire il progetto (“ciò che è possibile”). Ma, in senso
estensivo, la definizione del profilo funzionale significa anche valutare le aree di
forza e le aree di debolezza in una dimensione contestuale, adattiva, in rapporto
alla quale la “utilità” di un obiettivo non viene stabilita da un singolo attore
(insegnante, educatore, logopedista, psicologo, madre o padre), ma viene
individuata dall’équipe di concerto con i genitori (“ciò che è utile”).
R13
46
Dopo aver definito gli obiettivi specifici vanno quindi individuate le strategie più
idonee per il loro conseguimento, facendosi guidare dalle indicazioni che derivano
da esperienze internazionali. Tali strategie vanno tuttavia “filtrate” (in rapporto ad
indicazioni di validità), “adattate” (in rapporto alle caratteristiche specifiche
relative al soggetto, alla famiglia, al contesto socio-culturale), “verificate” (in
rapporto a specifici indicatori di qualità) e quindi “riformulate”.
Dalle considerazioni su esposte deriva che:
♦ non esiste un intervento che va bene per tutti i bambini autistici;
♦ non esiste un intervento che va bene per tutte le età;
♦ non esiste un intervento che può rispondere a tutte le molteplici esigenze
direttamente e indirettamente legate all’Autismo.
Per contro, la continuità e la qualità del percorso terapeutico sono garantite
attraverso:
♦ il coinvolgimento dei genitori in tutto il percorso;
♦ la scelta in itinere degli obiettivi intermedi da raggiungere e quindi degli
interventi da attivare (prospettiva diacronica);
♦ il coordinamento, in ogni fase dello sviluppo, dei vari interventi
individuati per il conseguimento degli obiettivi (prospettica sincronica);
♦ la verifica delle strategie messe in atto all’interno di ciascun intervento (le
strategie, cioè, possono anche variare da Servizio a Servizio, ma vanno
comunque periodicamente “controllate” in rapporto ad indicatori di qualità
che devono essere comuni ai diversi Servizi).
II. IL PANORAMA INTERNAZIONALE
II.1. LE STRATEGIE DI INTERVENTO
Come già ampiamente esposto, il Disturbo Autistico viene attualmente
considerato una sindrome comportamentale. La diagnosi, cioè, si basa su una serie
di manifestazioni “osservabili”, le quali rappresentano l’espressione di una
compromissione funzionale in tre aree:
• l’interazione sociale;
• la comunicazione;
• gli interessi e le attività.
Ne deriva che il progetto terapeutico prevede l’attivazione di una serie di
interventi finalizzati a:
• migliorare l’interazione sociale;
• arricchire la comunicazione;
• favorire un ampliamento degli interessi ed una maggiore flessibilità degli
schemi di azione.
Questa precisazione, che può sembrare scontata, vuole sottolineare la necessità di
una scelta di coerenza: se si adotta per la diagnosi un approccio clinico-
R14
47
descrittivo, la pianificazione dell’intervento deve essere ispirata ad una
definizione altrettanto chiara degli obiettivi da perseguire, che sono
necessariamente quelli scelti come criteri diagnostici.
Le “strategie” si riferiscono alle procedure utilizzate per conseguire gli obiettivi
individuati come prioritari.
Le strategie comunemente suggerite ed adottate, anche se variabili in rapporto ad
una serie di fattori, quali l’età o il grado di compromissione funzionale, possono
essere fatte rientrare in due grandi categorie:
♦ gli approcci comportamentali
♦ gli approcci evolutivi
GLI APPROCCI COMPORTAMENTALI
Esiste nel merito una notevole confusione, che richiede preliminarmente un rapido
exursus storico, con alcuni chiarimenti terminologici.
L’analisi del comportamento (Behavior Analysis) è lo studio del comportamento,
dei cambiamenti del comportamento e dei fattori che determinano tali
cambiamenti. L’analisi del comportamento applicata (Applied Behavior Analysis
= ABA) è l’area di ricerca finalizzata ad applicare i dati che derivano dall’analisi
del comportamento per comprendere le relazioni che intercorrono fra determinati
comportamenti e le condizioni esterne. In questa prospettiva l’ “analista
comportamentale” utilizza i dati ricavati per formulare teorie relative al perché un
determinato comportamento si verifica in un particolare contesto e,
conseguentemente, mette in atto una serie di interventi finalizzati a modificare il
comportamento e/o il contesto. Le informazioni ricavate dall’analisi del
comportamento, pertanto, vengono utilizzate in maniera propositiva e sistematica
per modificare il comportamento. L’ABA prende in considerazione i seguenti 4
elementi:
♦ gli antecedenti (tutto ciò che precede il comportamento in esame);
♦ il comportamento in esame (che deve essere osservabile e misurabile);
♦ le conseguenze (tutto ciò che deriva dal comportamento in esame);
♦ il contesto (definito in termini di luogo, persone, materiali, attività o
momento del giorno) in cui il comportamento si verifica.
Il programma di intervento (= la modifica del comportamento) viene realizzato su
dati che emergono dall’analisi, utilizzando le tecniche abituali della terapia del
comportamento: la sollecitazione (prompting), la riduzione delle sollecitazioni
(fading), il modellamento (modeling), l’adattamento (shaping) e il rinforzo.
Interventi comportamentali “tradizionali”. Fin dalla fine degli anni 60 sono
stati utilizzati per bambini autistici approcci basati sull’ABA, finalizzati ad
insegnare specifiche competenze con lo scopo di migliorare la socializzazione, la
comunicazione ed il comportamento adattivo. In particolare, Lovaas, che è stato
fra i primi ad utilizzare tale approccio (Lovaas et al., 1979), ha progressivamente
elaborato un protocollo di trattamento altamente strutturato: il Discrete Trial
Training (Lovaas, 1981). Si tratta di un intervento che prevede una serie di sedute
per un totale di 40 ore settimanali. Ciascuna seduta, a sua volta, prevede una serie
di trial altamente strutturati. Il trial è un evento di apprendimento, in cui il
bambino è stimolato a rispondere ad un specifico comando o “stimolo”.
48
In linea con il Discrete Trial Training esistono diversi altri programmi,
accomunati da due presupposti di fondo:
♦ la necessità di un insegnamento altamente strutturato, con un rapporto 1:1,
in un ambiente specificamente organizzato;
♦ l’incapacità del bambino autistico di apprendere in un contesto “naturale”,
che spesso funziona solo da “distrattore”.
Su tali presupposti si è sviluppo il modello “The University of California at Los
Angeles (UCLA) Young Autism Project” (NRC, 2001).
Interventi neo-comportamentali. Nel corso di questi ultimi anni è stato
progressivamente riconosciuto che un programma eccessivamente strutturato
comporta notevoli problemi di “generalizzazione” delle competenze apprese al di
fuori del setting di apprendimento. Peraltro, è stato riconosciuto che il bambino
autistico può apprendere molto di più di quanto comunemente ritenuto in ambienti
“naturali”, in maniera incidentale.
Recentemente, pertanto, esiste una tendenza ad utilizzare il paradigma dell’ABA
implementandolo negli ambienti che “naturalmente” il bambino frequenta
(famiglia, scuola, attività del tempo libero). Ciò comporta, evidentemente, il
coinvolgimento dei genitori, dei fratelli, degli insegnanti e dei coetanei, con
opportuni training per l’implementazione dei programmi di intervento sul
bambino. Tale tendenza, peraltro, traduce l’orientamento verso un tipo di
intervento sempre più “centrato sul bambino”, sulla stimolazione della sua
iniziativa e sulla facilitazione del suo sviluppo sociale (Prizant et al., 1998).
Su tali presupposti si sono sviluppati il “Walden Early Childhood Programs at the
Emery University School of Medicine”, il quale utilizza l’insegnamento
incidentale (Incidental Learning) in classi integrate (bambini con autismo e
bambini normali) e il “Learning Experiences, an Alternative Program for
Preschoolers (LEAP) at the University of Colorado – School of Education”, che si
focalizza sull’insegnamento ai pari del trattamento da fornire ai loro compagni di
classe con autismo (NRC, 2001).
GLI APPROCCI EVOLUTIVI (O INTERATTIVI)
Gli approcci evolutivi (o interattivi) si muovono in una cornice concettuale
completamente differente rispetto ai precedenti. Nella filosofia di questo tipo di
programmi è implicita l’importanza della dimensione emozionale e relazionale in
cui si realizza l’agire del bambino. Normalmente le diverse aree dell’emotività,
delle funzioni cognitive , delle competenze comunicative e così via, evolvono e si
influenzano reciprocamente definendo un sistema dinamico che non può essere
considerato la semplice somma delle componenti che partecipano alla sua
realizzazione. Si tratta, anche, di un sistema dinamico “aperto”, che in relazione
all’apporto esperenziale si attesta su livelli funzionali progressivamente più
evoluti, senza che sia possibile individuare quale delle modifiche dei singoli
componenti sia maggiormente determinante. In questa prospettiva l’intervento si
caratterizza come un intervento “centrato sul bambino” per favorire la sua libera
espressione, la sua iniziativa, la sua partecipazione. In questa prospettiva,
l’ambiente non è solo concepito come uno spazio fisico in cui implementare i
programmi di intervento secondo i principi dell’ABA, ma assume di per se stesso
una valenza “terapeutica”, in quanto luogo privilegiato di interazione, di scambio
49
e di conoscenza. Un contesto naturale rappresenta la premessa indispensabile per
attivare l’espressività, l’iniziativa e la partecipazione del bambino e favorire
quindi una proficua utilizzazione dell’apporto esperenziale. Peraltro, in accordo a
questi aspetti di inscindibilità fra cognitivo, emozionale, comunicativo e
relazionale, il ruolo degli operatori preposti alla realizzazione del progetto diventa
critico non solo per gli “esercizi” che possono somministrare, ma per il loro modo
di porsi e di relazionarsi.
I modelli, che fanno riferimento a tali approcci sono “Denver Model at the
University of Colorado” (Rogers et al., 2000), il “Heath Sciences Center
Developmental Intervention Model at The George Washington University School
of Medicine” (Greenspan et al., 1999) e la “Thérapie d’Echange et de
Développement (TED) de l’Université François Rabelais, CHU de Tours” (Lelord
et al., 1978; Barthélèmy et al., 1995).
La terapia della psicomotricità – abitualmente utilizzata in Italia – rientra
nell’ambito di tali approcci. In particolare, essa rappresenta una proposta
terapeutica che si propone i seguenti obiettivi:
♦ favorire la comparsa di segnalatori sociali (contatto oculare, sguardo
referenziale, sorriso, etc.);
♦ aumentare i tempi di attenzione;
♦ facilitare un uso più appropriato degli oggetti;
♦ stimolare la comunicazione;
♦ arricchire il vocabolario;
♦ scoraggiare determinati comportamenti (iperattività, stereotipie motorie,
condotte autolesive, etc.).
La terapia della psicomotricità inoltre si configura come una prassi terapeutica
che privilegia una modalità di approccio in grado di facilitare nel bambino:
♦ la percezione e la “conoscenza” di Sé come persona;
♦ la percezione e la “conoscenza” dell’Altro;
♦ la percezione e la “conoscenza” delle emozioni che sottendono i vari
comportamenti;
♦ la percezione e la “conoscenza” delle “leggi” emozionali e sociali che
regolano i rapporti interpersonali.
II.2. I MODELLI DI PRESA IN CARICO
Il panorama internazionale permette di individuare una serie di “modelli” di presa
in carico, che hanno superato i confini geografici in cui sono stati ideati e vengono
applicati in diverse parti del mondo.
Treatment and Education of Autistic and related Communication Handicapped
Children (TEACCH) – University of North Carolina School of Medicine at
Chapel Hill. Il programma TEACCH prevede un insegnamento strutturato basato
sull’approfondita valutazione dei punti di forza e di debolezza di ciascun bambino
e su alcuni principi di carattere generale: l’organizzazione dell’ambiente fisico, la
scansione precisa delle attività, la valorizzazione degli ausili visivi e la
partecipazione della famiglia al programma d’intervento. L’obiettivo è il
50
potenziamento delle autonomie del soggetto e il miglioramento della sua qualità
di vita personale, sociale e lavorativa. I genitori sono considerati la fonte più
attendibile di informazioni sul proprio bambino e vengono coinvolti nel
programma di trattamento, sia per consentire la generalizzazione delle
competenze acquisite sia per garantire una coerenza di approccio in ogni attività
di vita del soggetto (Schopler et al., 1980; Schopler et al., 1983). Il programma
TEACCH, pur utilizzando tecniche comportamentali come il rinforzo, non è di
tipo strettamente comportamentale: infatti, piuttosto che forzare il bambino a
modificare il comportamento attraverso la ripetitività e il rinforzo positivo o
negativo, si preferisce modificare l’ambiente in modo che l’apprendimento sia reso
più agevole (Marcus et al., 2000). Secondo i sostenitori del modello, adattare
l’ambiente alla persona e presentargli progressivamente le difficoltà, significa
rispettare la persona nella sua diversità.
Un quadro temporo-spaziale molto strutturato, comprensibile e prevedibile,
costituisce il primo passo per poter impostare un lavoro educativo con il bambino
autistico. L’ambiente di lavoro organizzato in spazi chiaramente e visivamente
delimitati, ognuno con delle funzioni specifiche chiaramente visualizzate,
consente al bambino di sapere con precisione ciò che ci si aspetta da lui in ogni
luogo e in ogni momento. Il passare del tempo è una nozione difficile da
apprendere, perché si appoggia su dati non visibili. Per questo è importante
strutturare la giornata attraverso un’organizzazione del tempo, che informi ad ogni
momento il bambino su ciò che sta accadendo, ciò che è accaduto e che accadrà,
aumentando in questo modo la prevedibilità e il controllo della situazione e
diminuendo l’incertezza, fonte di ansia.
Il coinvolgimento dei genitori, la strutturazione e la prevedibilità dell’ambiente,
l’adeguatezza delle richieste, nonché la chiarezza, la concretezza e la stabilità dei
messaggi sono, in sintesi, i principi basilari del modello.
Learning Experiences, an Alternative Program for Preschoolers and their
Parents (LEAP) at the University of Colorado School of Education.
Il LEAP, ideato da Strain e Cordisco (Strain et al., 1994; 2000), parte dai principichiave
che tutti i bambini traggono beneficio da un intervento integrato (che
includa casa, scuola e comunità), che i soggetti con autismo possono apprendere
dai coetanei con sviluppo tipico e che l’intervento deve essere pianificato,
sistematico ed individualizzato. Il modello è strettamente influenzato da teorie di
apprendimento comportamentale ed integra le tecniche proposte da Lovaas
(prompt, fading, shaping e rinforzo) e la componente sociale dell’apprendimento,
mantenendo l’obiettivo principale dello sviluppo delle abilità sociali del soggetto.
Esso favorisce, infine, l’autonomia nell’organizzazione del gioco e
nell’interazione sociale.
The University of California at Los Angeles (UCLA) Young Autism Project.
Ideato da Lovaas (Lovaas et al., 1979; 1981), si basa sul modello dell’Applied
Behavior Analysis (ABA) e prevede sezioni intensive di apprendimento di compiti
distinti tra loro (Discrete Trial Training, DTT). Il presupposto teorico è che ogni
comportamento è scomponibile ed ha una causa (antecedente) ed una
conseguenza, entrambe controllabili attraverso un’attenta analisi del
comportamento ed un addestramento. Il metodo promuove l’utilizzo di rinforzi
51
positivi come punto-chiave per il cambiamento ed il modellamento del
comportamento. Secondo i sostenitori, il compito rinforzato positivamente
continuerà, mentre quello ignorato o punito si fermerà. Il metodo prevede un
grande coinvolgimento della famiglia ed un numero di ore di intervento
settimanale variabile a seconda delle fasi (fino a 40 ore per settimana).
Denver Model at the University of Colorado Health Sciences Center.
Il modello sostenuto da Sally Rogers (Rogers et al., 2000) utilizza strategie che
rientrano nell’”approccio evolutivo”. In particolare, viene enfatizzato il ruolo del
gioco, inteso come modalità di apprendimento che può promuovere:
♦ processi di assimilazione e generalizzazione di una serie di pattern
cognitivi, comunicativi e linguistici;
♦ potenziamento delle relazioni sociali attraverso l’adulto, che si fa
promotore di relazioni e facilita quelle tra pari;
♦ sviluppo di affetti positivi, che vengono stimolati nel bambino per renderlo
più motivato all’interno delle attività psicopedagogiche;
♦ sostegno della comunicazione, che viene elicitata e potenziata sia a livello
verbale che non verbale;
♦ sviluppo del pensiero simbolico attraverso attività di gioco;
♦ ricorso a routine ed ambienti strutturati, che forniscano una sorta di
regolazione esterna.
In effetti, tale modello, nata nell’ambito di un’esperienza pilota in un’unità
operativa specifica, è stato dal 1998 implementato nei contesti naturali della
famiglia e della scuola.
Developmental Intervention Model at the George Washington University School
of Medicine.
Il Developmental Intervention Model (Greenspan et al., 1999) è basato
sull’identificazione del livello di sviluppo funzionale ed emotivo raggiunto dal
bambino, le differenze individuali nelle modalità di processare le informazioni
sensoriali e motorie, la tipologia di relazioni che il bambino stabilisce con le
figure adulte di riferimento. Il cuore del trattamento (“floor time”) è lo sviluppo
funzionale di modalità interattive che mirano a stabilire ed incrementare sempre di
più circoli di comunicazione, capaci di espandere sia la gamma di stati emotivi,
sia le competenze di comunicazione e di simbolizzazione del bambino, partendo
dal presupposto che la “lezione emotiva” precede la “lezione cognitiva”.
La Thérapie d’Echange et de Développment (TED) dell’Université François
Rabelais, CHU de Tours.
Il metodo di trattamento TED, ideato da Lelord (Lelord et al., 1978) e
progressivamente rielaborato dal gruppo di Tours (Barthélèmy et al., 1995),
consiste in un programma di stimolazione precoce, individualizzato, focalizzato
su alcune funzioni, quali attenzione, percezione, motricità, imitazione,
comunicazione, regolazione. E’ basato sui principi di tranquillità (la seduta
avviene in una stanza con pochi arredi, priva di stimoli visivi per favorire
l’attenzione del bambino e la decodifica dei messaggi), disponibilità
dell’operatore e reciprocità (viene stimolata la comunicazione attraverso giochi e
attività che comportino scambio di oggetti, gesti e vocalizzi o parole tra terapisti e
52
bambini). Prevede, inoltre, un ambiente stabile, prevedibile e rassicurante, con
precise sequenze temporali delle attività.
III. SUGGERIMENTI OPERATIVI PER I SERVIZI DI NPI
L’età evolutiva va individuata come il periodo in cui vengono messi in atto una
serie di interventi finalizzati a garantire la migliore qualità di vita possibile per
l’adulto autistico.
La continuità e la qualità del percorso terapeutico sono garantite dal Servizio
territoriale di Neuropsichiatria Infantile attraverso:
♦ il coinvolgimento dei genitori in tutto il percorso;
♦ la scelta in itinere degli obiettivi intermedi da raggiungere e quindi degli
interventi da attivare (prospettiva diacronica);
♦ il coordinamento, in ogni fase dello sviluppo, dei vari interventi
individuati per il conseguimento degli obiettivi (prospettica sincronica);
♦ la verifica delle strategie messe in atto all’interno di ciascun intervento (le
strategie, cioè, possono anche variare da Servizio a Servizio, ma vanno
comunque periodicamente “controllate” in rapporto ad indicatori di qualità
che devono essere comuni ai diversi Servizi).
All’interno di ciascun intervento, facendo riferimento ai suggerimenti che
derivano dalle esperienze internazionali, la scelta delle strategie è legata ad una
serie di caratteristiche variabili da situazione a situazione.
Tali caratteristiche si riferiscono in particolare a:
• l’età;
• l’entità della compromissione funzionale nell’ambito di ciascuna delle aree
considerate per definizione patognomoniche;
• il livello cognitivo.
Al fine di fornire indicazioni di carattere operativo, la variabile che assume un
significato determinante è l’età ( = l’età cronologica). Le esperienze ormai
accumulate, infatti, cominciano a fornire dati utili per definire una Storia Naturale
del Disturbo, all’interno della quale si inscrivono alcuni periodi particolarmente
“critici”.
Tali periodi coincidono con:
1°. la formulazione di una “prima” diagnosi di Autismo, a cui segue un
marcato disorientamento dei genitori legato alle difficoltà di
“comprendere” una diagnosi di questo genere. Attualmente, questa
“prima” diagnosi avviene in epoche sempre più precoci, comunque
collocabile nella fascia 2-5 anni;
2°. l’inserimento nel ciclo della scuola elementare. Tale passaggio fornisce
nuovi elementi di confronto, stimola bilanci su tutto il lavoro
precedentemente svolto, fornisce elementi per aumentare la
consapevolezza delle reali difficoltà del bambino, destabilizza equilibri
precari;
3°. la “crisi” puberale, che non necessità di particolari delucidazioni;
4°. l’accesso al mondo degli adulti.
53
Tali periodi “critici” portano ad individuare 4 fasce di età, in cui le caratteristiche
dell’intervento devono assumere connotazioni peculiari.
Le 4 fasce di età corrispondono al:
• periodo dai 2 ai 5 anni, che per evitare rigide limitazioni cronologiche sarà
indicato come Periodo Pre-scolare;
• periodo dai 6 agli 12 anni, Periodo Scolare;
• periodo dai 13 ai 18 anni, Adolescenza;
• l’età adulta, Età Adulta.
Nel presente documento verranno prese in considerazione i primi 3 periodi. Il
piano di intervento per soggetti adulti con Autismo sarà oggetto di uno specifico
documento da elaborare in collaborazione con le Associazioni di Famiglie e con le
altre Società Scientifiche che si occupano di età adulta.
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III.1. INDICAZIONI DI TRATTAMENTO PER BAMBINI IN ETÀ PRESCOLARE
Le caratteristiche che conferiscono a tale periodo una assoluta specificità sono
rappresentate da una serie di aspetti riassumibili nel modo seguente:
• è l’età in cui viene abitualmente formulata per la prima volta la diagnosi di
Autismo; una diagnosi che ha un impatto emotivo fortissimo sui genitori.
Essi peraltro non riescono ad avere una spiegazione sulle cause (“perché”),
non riescono a comprenderne la natura (“che cosa è”), non riescono a
prevederne l’evoluzione (“come sarà da grande”);
• è l’età in cui il “fenotipo” comportamentale risulta abbastanza omogeneo.
Il quadro clinico, infatti, è dominato dalla compromissione dell’interazione
sociale e della comunicazione, che peraltro in questa età si traduce in
comportamenti nel complesso sovrapponibili da bambino a bambino
(l’aggancio relazionale è sempre molto difficile, spesso impossibile;
l’aderenza alle proposte dell’altro è sempre molto scarsa, spesso assente;
la percezione dell’altro è saltuaria e sempre strumentale, in quanto limitata
alla richiesta di appagamento di bisogni personali: in una parola, “il
bambino vive in un mondo tutto suo”). Nella maggioranza dei casi è solo
progressivamente che si renderà evidente la specificità del profilo clinicoevolutivo
proprio di ciascun bambino;
• è l’età in cui i processi di maturazione e crescita del Sistema Nervoso
Centrale sono particolarmente spinti e in cui non si è ancora verificata una
definita differenziazione delle strutture encefaliche. Probabilmente, è
proprio questo che determina la massima “pervasività” dei sintomi e,
paradossalmente, la particolare omogeneità del fenotipo comportamentale;
• è l’età in cui è praticamente impossibile individuare elementi con
significato prognostico e prevedere anche in termini generici l’evoluzione
a lungo termine.
Gli aspetti appena esposti, recepiti ormai a livello internazionale, sono alla base di
un orientamento generale, in rapporto al quale in questa fascia di età l’intervento
deve essere precoce, intensivo, curriculare (NRC, 2001).
L’intervento deve essere precoce. La precocità, infatti, permette una più adeguata
sistematizzazione e riorganizzazione interna delle esperienze percettive che
vengono facilitate, in quanto si ha la possibilità di “operare” in un periodo in cui
le strutture encefaliche non hanno assunto una definita specializzazione funzionale
e le funzioni mentali, pertanto, sono in fase di attiva maturazione e
differenziazione (Guaralnick, 1998; Dawson et al., 2001).
L’intervento deve essere intensivo. Il termine “intensivo” si riferisce alla
necessità di attivare una nuova dimensione di vita, per il bambino e per la
famiglia. Per quel che riguarda il bambino, si tratta di organizzare una serie di
situazioni strutturate, nell’ambito delle quali egli possa confrontarsi con nuove
esperienze, nuove attività e nuovi modelli di relazione. Ciò, soprattutto all’inizio,
richiede “tempo”: tempo per conoscere il bambino, tempo per formulare un
progetto personalizzato, tempo per verificare le sue risposte ed adattare su di esse
55
il progetto. L’indicazione che deriva dall’esperienza internazionale fa riferimento
ad un tempo non inferiore alle 18 ore settimanali (NRC, 2001). Per quel che
riguarda la famiglia, bisogna ugualmente organizzare situazioni strutturate,
nell’ambito delle quali è necessario lavorare sul disorientamento dei genitori per
attivare le loro naturali risorse e coinvolgerli nel progetto terapeutico. Anche
questo obiettivo, soprattutto all’inizio, richiede “tempo”: tempo per conoscere i
genitori, tempo per aiutarli ad elaborare le angosce connesse al disturbo e alla
scarsa prevedibilità del suo divenire, tempo per formulare insieme con loro le
strategie per la realizzazione del progetto.
Il termine “intensivo”, tuttavia, non è limitato ad una mera dimensione temporale,
ma si riferisce anche all’esigenza di un’adeguata organizzazione dei tempi, degli
spazi e delle attività del bambino nel corso di una sua giornata abituale. Ciò fa sì
che le esperienze “quotidiane” possano assumere una valenza terapeutica. In
questa prospettiva la “terapia” non è solo quella che si svolge nel servizio di
riabilitazione, ma è piuttosto un progetto, che deve essere elaborato dall’équipe
del Servizio di NPI. Tale progetto prevede obiettivi specifici realizzabili mediante
programmi con caratteristiche conformi ai contesti in cui essi devono essere
implementati (Famiglia-Servizio di Riabilitazione-Scuola).
E’ evidente che affinché tali programmi possano rispondere alle finalità più
generali del progetto, è necessario un collegamento funzionale fra le figure cui è
demandata la responsabilità di implementarli (genitori-terapisti-insegnanti) (NRC,
2001; Prizant et al., 2003).
L’intervento deve essere curriculare. Il termine “curriculare” si riferisce ai
contenuti che devono caratterizzare i diversi programmi previsti dal progetto. In
termini di contenuti, si ritiene che ciò di cui il bambino necessita per uno sviluppo
quanto più possibile “tipico” può essere “insegnato” facendo riferimento ad un
ordine sequenziale di “tappe”, che sono quelle che normalmente compaiono nel
corso dello sviluppo. Nel concetto di “curriculare” è implicito un altro aspetto
critico per la formulazione del programma: vale a dire, la necessità di una
definizione chiara degli obiettivi e di un monitoraggio sistematico del percorso
terapeutico. In particolare è necessario:
• individuare, fra gli obiettivi possibili, quelli che si riferiscono a
competenze osservabili e misurabili;
• stabilire un punto di partenza e prefissare una serie di tappe sequenziali;
• predisporre un sistema per la raccolta dei dati in itinere e la valutazione dei
risultati in tempi prefissati.
Su cosa bisogna agire ? (COSA)
Le caratteristiche del periodo portano ad individuare alcuni Punti Critici comuni
ai diversi bambini (Schema 1).
Tali Punti Critici dettano gli Obiettivi Prioritari dell’intervento, che sono
individuabili nei seguenti aspetti:
1. il disorientamento dei genitori;
2. il disturbo dell’interazione sociale e della comunicazione, espresso da una
marcata difficoltà (􀃆 impossibilità) di aggancio relazionale e da una
scarsa (􀃆 assente) disponibilità ad esperienze condivise;
3. la scarsa modulazione degli stati emotivi.
56
Individuare questi tre aspetti quali punti critici cui deve rivolgersi il progetto non
significa naturalmente ignorare eventuali altri problemi che possono essere
presenti. Va, tuttavia, considerato che molti di questi “altri” problemi sono spesso
“secondari” in termini di sequenza causale. E’ evidente tuttavia che quando gli
eventuali “altri” problemi sembrano assumere una valenza preminente nel
caratterizzare il comportamento disadattivo, essi vanno specificamente presi in
considerazione e trattati. Pertanto, i tre “punti” descritti vanno considerati quali
obiettivi irrinunciabili (obiettivi di minima) di qualsivoglia programma si vada ad
applicare in questa particolare fascia di età.
Come si può agire su tali aspetti? (COME)
1) Il disorientamento dei genitori. Lavorare sul disorientamento dei genitori non
ha solo lo scopo di garantire la loro “serenità”, ma risponde al concetto più volte
espresso di individuare la famiglia come luogo privilegiato per la crescita
comunicativo-sociale del bambino e di coinvolgere i genitori quali protagonisti
del progetto. Il raggiungimento di tale obiettivo riconosce una serie di obiettivi
intermedi, riassumibili nel modo seguente:
Il primo obiettivo è rappresentato dall’aiutare i genitori a raggiungere una
soddisfacente conoscenza dell’Autismo, quale disabilità evolutiva.
Gli elementi caratterizzanti questa fase della presa in carico (primo obiettivo)
vanno individuati nei seguenti punti:
♦ fornire ai genitori informazioni sul quadro clinico dell’autismo, sulle
cause, sulle ricerche che vengono effettuate a livello internazionale, sulle
possibili indagini “aggiuntive” che possono essere effettuate
♦ metterli al corrente delle varie “terapie” proposte a livello internazionale
♦ documentarli sulle risorse territoriali (territorio di appartenenza)
♦ illustrare il percorso terapeutico che si prospetta a breve e medio termine
E’ evidente che tutte le “informazioni” necessarie per favorire la conoscenza dei
genitori non possono essere trasmesse in un singolo incontro. Bisogna per contro
prevedere, nella fase immediatamente successiva alla formulazione della diagnosi,
una serie di incontri, nell’ambito dei quali si dà la possibilità ai genitori di
ritornare eventualmente su argomenti già discussi. Ciò, al fine di favorire una
graduale “metabolizzazione” delle spiegazioni che vengono loro fornite.
Una metodologia di questo tipo permette di far nascere nei genitori la percezione
del Servizio come un punto di riferimento in grado di ascoltarli e di affiancarli. Da
tale consapevolezza nasce anche il bisogno di rivolgersi al Servizio per avere
consigli nella gestione “quotidiana” del bambino. Quando ciò avviene significa
che il primo obiettivo è stato raggiunto.
Il raggiungimento del primo obiettivo si pone quale premessa per il
conseguimento del secondo obiettivo: attivare le risorse genitoriali nella gestione
del quotidiano.
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57
Va infatti sottolineato che i consigli psicoeducativi non possono essere impartiti
come una lezione ai genitori, ma devono nascere come bisogno dei genitori di
essere sostenuti nelle scelte pedagogiche. In effetti, anche quando i genitori in
maniera “ingenua” richiedono suggerimenti immediati su come comportarsi,
bisogna far capire loro che non esistono comportamenti esatti o sbagliati in
assoluto: le scelte pedagogiche devono tener conto della specifica tipologia del
padre, della specifica tipologia della madre, delle specifiche caratteristiche
temperamentali del bambino e dell’assoluta originalità di ciascun sistema famiglia.
Sintetizzando quanto esposto, gli elementi caratterizzanti questo secondo obiettivo
sono i seguenti:
♦ guidare i genitori alla conoscenza del bambino e delle modalità che
caratterizzano i suoi comportamenti
♦ fornire loro consigli su possibili atteggiamenti educativi “alternativi” a
quelli abitualmente utilizzati
♦ incoraggiare i genitori a scegliere in maniera autonoma strategie educative
“alternative”
♦ sostenerli nelle scelte effettuate (se valide !!!)
♦ favorire una riorganizzazione del sistema famiglia
♦ insistere sulla necessità di un’adeguata organizzazione delle attività del
tempo libero
Compito dell’operatore preposto a fornire suggerimenti psicoeducativi è
innanzitutto quello di aiutare i genitori a scoprire le “caratteristiche” del proprio
bambino e quindi di stimolarli ad individuare nel loro specifico le modalità
educative più idonee.
Quando infine nel corso degli incontri sono stati realizzati i primi due obiettivi si
può passare al terzo obiettivo, che consiste nell’implementare in famiglia specifici
programmi di intervento. Essi rappresentano il proseguimento e/o il
completamento di quanto effettuato negli “altri spazi terapeutici” (Servizio e
Scuola). Si tratta di programmi finalizzati a facilitare:
♦ l’acquisizione di specifiche autonomie
♦ la scomparsa di specifici comportamenti disadattivi
con strategie concordate con gli operatori del Servizio.
2) Il disturbo dell’interazione sociale e della comunicazione.
Per individuare le strategie utili a migliorare l’interazione sociale e la
comunicazione è necessario far riferimento a modelli interpretativi della clinica
che possano porsi come rationale dell’intervento. In questa prospettiva, una serie
di studi, replicati in diversi centri di ricerca internazionali, hanno messo in
evidenza, quale “deficit” sottostante le atipie dell’interazione sociale e della
comunicazione, un disturbo del processo di sviluppo della cognizione sociale
(Prizant et al., 2003).
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58
In particolare, nella fascia di età considerata (Periodo Pre-scolare), i
comportamenti atipici che rientrano nella compromissione dell’interazione sociale
e della comunicazione sembrano riconducibili ad un deficit in due abilità
sottostanti: un’inadeguatezza dell’attenzione congiunta ed una difficoltà
nell’uso dei simboli (Baron-Cohen et al. 1992; Mundy, 2003).
L’attenzione congiunta è la capacità di stabilire con l’Altro un comune fuoco di
interesse. Essa nasce come un bisogno di richiamare l’attenzione dell’Altro su un
proprio interesse e di rivolgere la propria attenzione a qualcosa che sembra
interessare l’Altro. Ciò permette di leggere e comprendere, in ordine crescente:
1°. le emozioni
2°. i desideri,
3°. le credenze.
Una tale comprensione si pone, a sua volta, quale premessa per leggere e
comprendere le intenzioni e le motivazioni dei comportamenti dell’Altro: è il
processo di cognizione sociale.
L’uso dei simboli si riferisce alla capacità del bambino di acquisire e
padroneggiare i codici (sguardo, mimica, postura, gesti, suoni e parole) che gli
permettono di entrare in uno scambio comunicativo con l’Altro: è il processo di
simbolizzazione (Wetherby et al., 2000).
In effetti, le due capacità evolvono in maniera strettamente interdipendente.
L’attenzione congiunta, infatti, stimola, attraverso l’osservazione e l’imitazione,
l’apprendimento di una serie di “comportamenti” che assumono progressivamente
una complessità simbolica crescente:
1°. guardare l’Altro;
2°. alternare lo sguardo dall’Altro all’oggetto e viceversa;
3°. tendere la mano verso l’oggetto e/o evento interessante e alternare lo
sguardo con l’Altro;
4°. indicare con il dito l’oggetto e/o evento interessante;
5°. porgere e mostrare;
6°. usare simboli verbali.
D’altra parte, la capacità di padroneggiare con sempre maggiore competenza tali
“comportamenti” con valore simbolico permette di realizzare le spinte connesse
all’attenzione congiunta per conoscere sempre meglio se stesso e l’Altro
(emozioni, intenzioni, desideri, credenze).
Il razionale dell’intervento terapeutico pertanto viene ad identificarsi in un lavoro
su queste abilità sottostanti (attenzione congiunta e uso dei simboli), seguendo lo
stesso ordine sequenziale che lo sviluppo “normalmente” prevede.
Vengono di seguito riportate, in maniera semplificata, alcune sollecitazioni mirate
allo sviluppo dell’attenzione congiunta e del processo di simbolizzazione, con lo
scopo più generale di favorire l’interazione sociale e la comunicazione.
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Esempi di sequenze di interazione attivabili
1°. Agganciarsi ad attività effettuate dal bambino, anche in maniera non
intenzionale, ripetendole, per cominciare ad avviare un processo di
condivisione di attività;
2°. Stabilire una condivisione di affetti (cercando il suo sguardo e
sorridendogli);
3°. Attivare sequenze di interazione sociale, mediante canali privilegiati (per
esempio, contatto fisico fra bambino e terapista, coordinato con gesti e
vocalizzazioni) (= relazione diadica, bambino-terapista, senza
interposizione di oggetti);
4°. Attirare l’attenzione a stimoli anticipatori di tali eventi piacevoli (quali,
sguardo, mimica, postura e/o vocalizzazioni che vengono poi seguiti da
esperienze che il bambino ha mostrato di gradire);
5°. Stimolare l’imitazione di azioni semplici;
6°. Utilizzare “spettacoli” interessanti (per esempio, palloncini gonfiabili o
bolle di sapone) per “catturare” l’attenzione del bambino ed operare su
tali “spettacoli” per stimolare il bambino a richiedere che l’altro faccia
qualcosa per lui (= relazione triadica, bambino-oggetto-operatore, in cui
l’oggetto è il fine e l’operatore lo strumento);
7°. Arricchire, nel corso delle sequenze su accennate, il repertorio di
comportamenti comunicativi, anche se inizialmente finalizzati al solo
scopo di richiedere l’aiuto dell’altro (sguardo, gesti, vocalizzazione);
8°. Attirare l’attenzione del bambino su eventi, spettacoli o oggetti a cui il
terapista sembra prestare particolare interesse (= attenzione congiunta
in risposta a sollecitazioni dell’operatore);
9°. Rinforzare comportamenti proto-dichiarativi utilizzati dal bambino per
dimostrare un suo interesse (= attenzione congiunta su iniziativa del
bambino);
10°. Arricchire, nel corso delle sequenze di attenzione congiunta, il
repertorio di comportamenti comunicativi, che in questo caso assumono
il significato di condividere con l’operatore un comune fuoco di
interesse (dallo sguardo ai gesti e, infine, alla verbalizzazione);
11°. Stimolare giochi di finzione di complessità progressivamente crescente;
12°. Inserirsi progressivamente nel gioco di finzione (=relazione triadica,
bambino-oggetto-operatore, in cui l’oggetto è lo strumento e l’operatore
è il fine).
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3) Scarsa modulazione degli stati emotivi.
In questa particolare fascia di età il quadro clinico presenta un altro aspetto
caratteristico, rappresentato da una scarsa capacità di modulazione degli stati
emotivi. Un possibile modello interpretativo di tale riscontro è rappresentato da
un’incapacità relativa da parte del bambino di organizzare in un tutto coerente il
carico esperienzale che in tale periodo raggiunge l’encefalo. In effetti, il bambino
fin dalla nascita è immerso in un mondo di stimoli. All’inizio, tuttavia, egli è
protetto da una sorta di barriera naturale (neuropsicologica), che dosa il carico
esperenziale. A partire dai 12 mesi, le modifiche morfo-funzionali dell’encefalo,
inscritte nel processo ontogenetico, determinano una sorta di apertura di una
finestra sul mondo, con l’arrivo di un carico esperenziale, che il bambino autistico
non riesce a sistematizzare in un tutto coerente. Ciò determina una situazione di
disorientamento e di panico nei confronti di tutta una serie di stimoli “nuovi”
(visivi, tattili, uditivi, sociali), che il bambino non riesce a sottoporre ad
un’adeguata elaborazione cognitiva. In questa prospettiva molti dei
comportamenti disadattivi (challenging behaviors) assumono un significato
comunicativo e traducono la frustrazione del bambino derivante dalla incapacità
di “ capire e farsi capire”.
In questa prospettiva risulta particolarmente importante:
• la “regolarità” e la prevedibilità del contesto all’interno del quale si vanno
ad attivare le esperienze del bambino. Tale “regolarità” non si riferisce ad
una rigida strutturazione degli spazi e delle attività in accordo a criteri
predefiniti, ma prevede l’organizzazione di un ambiente necessariamente
flessibile, ma sufficientemente prevedibile, in accordo ad indicazioni che
ci fornisce il bambino stesso;
• la coerenza, la stabilità e la continuità degli atteggiamenti delle figure che
si rapportano al bambino. Si tratta, in altri termini, di un’altra forma di
“regolarità” e prevedibilità, in questo caso estesa alla qualità dei rapporti
interpersonali;
• l’uso di approcci educativi di tipo strutturato (cognitivo-comportamentali),
comunque inseriti nell’ambito di una dimensione relazionale che aiuti il
bambino a cogliere il piacere dell’interazione e le sfumature che
caratterizzano i rapporti interpersonali.
Sulla base di quanto precedentemente accennato, anche il lavoro sull’attenzione
congiunta e, soprattutto, quello sulla capacità di usare i simboli per la
comunicazione forniscono un contributo determinante nel facilitare una più
adeguata modulazione degli stati emotivi.
Con quali modalità bisogna agire ? (CHI e DOVE)
Sulla base di quanto precedentemente esposto, occorre prefigurarsi un programma
che preveda l’attivazione di una serie di situazioni stimolo, organizzate in accordo
agli obiettivi individuati.
Il programma è elaborato dall’équipe del Servizio di NPI e, anche se unico, è
composto da almeno tre moduli, quanti sono gli “spazi” prevedibili per la sua
implementazione:
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♦ il servizio di NPI;
♦ la scuola;
♦ la famiglia.
In altri termini, i moduli che costituiscono il programma, pur se finalizzati agli
stessi obiettivi generali, assumono caratteristiche specifiche in rapporto a chi deve
applicarli e al contesto in cui devono essere applicati.
♦ Il Servizio di NPI
Il Servizio di NPI interviene nella realizzazione del programma “direttamente” sul
bambino e “indirettamente”, coordinando le attività a Scuola e in Famiglia.
In particolare, il Servizio interviene “direttamente” sul bambino provvedendo alla
realizzazione di quella parte del programma centrata sulla facilitazione delle
competenze appartenenti all’attenzione congiunta, all’uso dei simboli, alla
comunicazione preverbale e alla modulazione degli stati emotivi. Il lavoro viene
svolto con sedute terapeutiche, in un rapporto 1:1, per un totale di almeno 10 ore
settimanali.
Circa le “caratteristiche” dell’operatore che deve essere direttamente impegnato
nell’effettuazione del programma, la figura del Terapista della Neuro e
Psicomotricità dell’Età Evolutiva, in accordo ai più recenti profili professionali,
risulta la più idonea. E’ evidente, tuttavia, che, come per gli ambiti del “saper
fare”, anche il Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva che si
dedichi alla realizzazione del programma deve aver maturato una formazione che
gli permetta di uniformarsi alle indicazioni che derivano dalla comunità scientifica
internazionale.
♦ La Famiglia.
La Famiglia, come accennato, si configura come uno spazio privilegiato per il
conseguimento degli obiettivi considerati critici in questa particolare fascia di età.
Con riferimento a tali obiettivi, la famiglia si pone, in una prima fase, come
destinatario dell’intervento (= disorientamento dei genitori) e in una seconda fase
come protagonista attivo nella realizzazione del progetto.
Per quel che riguarda la prima fase, è necessario prevedere una serie di incontri
con la famiglia, nell’ambito del Servizio, con un operatore che:
􀂾 abbia maturato specifiche competenze in tema di Autismo,
􀂾 sia aggiornato sui più recenti orientamenti internazionali,
􀂾 disponga di una formazione di base in grado di permettergli di gestire le
complesse dinamiche emozionali che in questa fase investono l’intero
sistema famiglia.
Per quel che riguarda la seconda fase, un ruolo determinante nell’aiutare i genitori
a implementare la parte del programma che loro compete è svolto dagli operatori
impegnati “direttamente” nel trattamento del bambino presso il Servizio. Tali
operatori, infatti, realizzando il progetto terapeutico e discutendolo con gli altri
operatori dell’équipe, imparano a conoscere il bambino, le sue modalità reattive e
le strategie più idonee per il conseguimento degli obiettivi fissati nel progetto.
Pertanto, essi rappresentano le persone più idonee per rendere partecipi i genitori
di dette strategie e per aiutarli a metterle in pratica a casa.
Dovrebbero essere previste “visite domiciliari”, secondo un calendario variabile in
accordo alle esigenze del caso.
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♦ La Scuola.
Considerando l’età, il livello di sviluppo e la natura del problema, l’ “ambiente
scolastico” (Asilo Nido e Scuola Materna) rappresenta uno spazio particolarmente
utile per “completare” il progetto. L’ “ambiente scolastico”, infatti, permette di
trasferire, in un contesto di incontro e confronto con i coetanei, il lavoro
programmato per l’attenzione congiunta, la capacità di usare simboli, la
comunicazione e la modulazione degli stati emotivi. Affinché tale spazio possa
assumere una valenza terapeutica è, tuttavia, necessario che gli operatori della
scuola vengano coinvolti attivamente nel progetto. Si ripropone ancora una volta
la necessità di definire, a monte dei contenuti dell’intervento, la strutturazione del
contesto all’interno del quale tali contenuti vanno poi inseriti. Il coinvolgimento
degli operatori dell’ambiente scolastico deve avvenire ad opera degli operatori del
Servizio attraverso incontri periodici, nell’ambito dei quali vanno discussi una
serie di aspetti generali che riguardano il bambino, le sue modalità relazionali, i
suoi stili comunicativi e le caratteristiche del suo modo di rispondere alle
sollecitazioni esterne. Nel mettere al corrente gli operatori scolastici degli obiettivi
terapeutici individuati negli altri contesti (Servizio – Famiglia), si definiscono
quelli realizzabili all’interno dell’ “ambiente scolastico”.
Una risorsa che va particolarmente utilizzata è la presenza dei coetanei. Essi,
infatti, con la spontaneità che li caratterizza, la “naturalezza” del loro modo di
rapportarsi e la capacità di una sintonizzazione empatica, si pongono come figure
particolarmente idonee per attivare sequenze di interazione in grado di facilitare la
crescita sociale del bambino autistico. E’ evidente che questo ruolo che possono
svolgere i coetanei è soprattutto potenziale. Si rende pertanto necessario un loro
coinvolgimento “attivo”, attraverso la sensibilizzazione nei confronti di tematiche,
che per la loro complessità, devono essere affrontate con modalità e strumenti
adeguati al livello di sviluppo.
63
III.2. INDICAZIONI DI TRATTAMENTO PER BAMBINI IN ETÀ
SCOLARE
Come già accennato, l’età dei 6-7 anni segna un momento decisivo nella storia del
bambino autistico. Quando con l’età di 6-7 anni si rende necessaria l’iscrizione
alla scuola elementare, il passaggio da un ambiente meno strutturato e più
flessibile (Scuola Materna) ad uno decisamente più strutturato ed organizzato
secondo una logica curriculare (Scuola Elementare) comporta necessariamente
una rivalutazione (da parte dei genitori e dello stesso tecnico) del quadro generale.
La nuova realtà, infatti:
♦ propone nuovi elementi di confronto,
♦ stimola bilanci su tutto il lavoro precedentemente svolto,
♦ fornisce elementi per aumentare la consapevolezza delle reali capacità del
bambino,
♦ destabilizza equilibri precari.
A questa età, peraltro, si va caratterizzando in maniera sempre più definita il
profilo proprio di ciascun bambino. Il bambino, cioè, sembra uscire da quella fase
di globale disorientamento, che per molti aspetti conferiva un carattere di
apparente omogeneità al quadro (“non vedo, non sento, non parlo”), e fornisce
indicazioni più esplicite sul “suo” quadro neuropsichico, in termini di:
• aspetti temperamentali;
• grado di compromissione relazionale;
• livello comunicativo;
• competenze cognitive
• eventuale presenza di problemi in co-morbidità.
In altri termini, a questa età la “popolazione” di bambini autistici, pur se
caratterizzata da “comportamenti” che soddisfano i criteri diagnostici per una
collocazione nosografica all’interno di un’unica categoria (Disturbo Autistico),
mette in evidenza per ciascun bambino una serie di caratteristiche del tutto
“originali”, che rendono estremamente diversificato il comportamento adattivo.
Relativamente al comportamento adattivo, si viene a definire una sorta di
continuum, ai cui estremi si collocano, da un lato, gli autistici a basso
funzionamento e, dall’altro, gli autistici ad alto funzionamento.
Su cosa bisogna agire ? (COSA)
Mentre nel periodo precedente (Età Prescolare) il carattere del progetto era
prevalentemente “centrato sul bambino”, con una connotazione fortemente
abilitativa (= far emergere le abilità), in questo seconda fase il carattere del
progetto è sempre più “centrato sulla famiglia” e più in generale sul contesto
ambientale, con finalità, comunque abilitative (= far emergere abilità), ma sempre
più adattive (= utilizzazione delle abilità per favorire l’adattamento del soggetto
all’ambiente in cui vive). Ne deriva che gli aspetti da prendere in considerazione
per la formulazione del programma terapeutico riguardano:
1. i genitori
2. il bambino
3. la scuola
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E’ evidente che anche in questo caso valgono le considerazioni esposte per il
“periodo” precedente. E’ possibile, cioè, che in rapporto alla variabilità fenotipica
del quadro possono venire a crearsi situazioni specifiche, che vanno
opportunamente valutate e trattate.
Come si può agire su tali aspetti ? (COME)
1) I genitori.
Il “come” agire è in relazione ad una serie di circostanze.
[A] Nel caso in cui il bambino venga per la prima volta al Servizio in questa età,
bisogna mettere in atto nei confronti dei genitori il percorso formativo già
descritto nella prima fase (informazione 􀃆 suggerimenti psicoeducativi 􀃆
coinvolgimento attivo nel progetto).
[B] Nel caso in cui i genitori siano già seguiti dalla fase precedente e dimostrino
una buona aderenza al progetto, bisogna “rinforzare” le loro risorse e
prospettare i nuovi scenari che la fase 6 – 12 anni comporta. E’ necessario, in
particolare, ribadire la loro centralità nel progetto terapeutico, il quale deve
prevedere
♦ una diversificazioni delle attività del bambino,
♦ un’adeguata organizzazione delle stesse in accordo alle esigenze di tutti i
membri del sistema famiglia,
♦ un costante lavoro sulle autonomie.
Anche nelle situazioni più favorevoli, in cui sia garantita una soddisfacente
rete dei servizi, la famiglia finisce inevitabilmente per essere il garante della
continuità dei vari interventi nei diversi contesti in cui essi devono essere
realizzati.
[C] Nel caso in cui i genitori siano già seguiti dalla fase precedente, ma presentino
segni di “scoraggiamento”, vanno messi in atto specifici provvedimento di
sostegno.
In tali situazioni la tonalità emotiva prevalente è improntata alla delusione per
veder vanificate una serie di aspettative e di speranze. Molto spesso, infatti, in
questa fase l’Autismo si realizza nella sua complessa drammaticità e riattiva
nei genitori angosce sommariamente rimosse, comparse quando per la prima
volta, nel periodo precedente, avevano sentito utilizzare il termine di
“autismo” per descrivere i comportamenti del proprio bambino.
E’ evidente che tali dinamiche possono comportare tre rischi:
a) un malessere generale del sistema famiglia,
b) un impoverimento delle naturali risorse educative genitoriali,
c) una difficoltà di coinvolgere “produttivamente” i genitori nelle successive
fasi del progetto terapeutico.
L’intervento sui genitori in questa fase, realizzabile attraverso una serie di
incontri, deve mirare al “chiarimento” dei seguenti aspetti:
1) il successo del trattamento non sempre si identifica con una “guarigione”,
ma piuttosto con la possibilità di garantire il migliore adattamento
possibile del soggetto al suo ambiente, che peraltro permette una buona
qualità di vita del soggetto e dell’intero sistema famiglia. In effetti, dopo il
primo periodo (Età prescolare), in cui anche il “tecnico” deve mettere in
bilancio che nel ventaglio delle possibilità evolutive esiste quella che il
bambino esca dalla categoria dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, a
65
partire dai 6-7 anni tale possibilità diventa praticamente irrealizzabile.
Bisogna, pertanto, lavorare nel favorire un’analisi della situazione in
termini di realtà, prospettando comunque ai genitori che un soddisfacente
adattamento sociale è un obiettivo realisticamente perseguibile;
2) il persistere della sintomatologia autistica di intensità uguale o anche
superiore a quella rilevata nel periodo precedente, non significa che il
bambino sta “peggiorando”, ma indica che egli è ancora vulnerabile ed
incapace di fronteggiare gli elementi di incostanza, instabilità e varianza
che la nuova fase evolutiva comporta. Bisogna, pertanto, continuare a
garantire una regolarità ed una prevedibilità delle esperienze, mediante
atteggiamenti educativi non gravati da vissuti di disorientamento, sfiducia
ed angoscia;
3) non esistono soluzioni magiche del problema. Ciò in pratica comporta la
necessità di chiarire due ulteriori punti:
a. diffidare di interventi privi di evidenza scientifica che, peraltro, si
pongono come soluzioni miracolistiche per tutti i bambini, per tutte
le età e per qualsiasi problema;
b. tener presente che la meta finale (un soddisfacente adattamento
sociale) va realizzata attaverso un serie di traguardi intermedi, che
se al momento possono sembrare scarsamente rilevanti
rappresentano alla lunga le pietre miliari per l’articolazione del
progetto.
2) Il bambino.
Anche per il bambino, il “come” agire è legato ad una serie di circostanze.
In tutti i casi, sia che si tratti di un bambino che per la prima volta giunge al
Servizio, sia che si tratti di una rivalutazione in rapporto alla nuova fase di
sviluppo, il “come” agire dipende comunque dalla definizione del profilo
funzionale (assessment), con un’analisi attenta delle sue aree di forza e delle sue
aree di debolezza.
AREA COMUNICATIVA E SOCIALE
In linea generale:
[A] la presenza di una sintomatologia autistica di intensità pari o superiore a
quella rilevabile nel periodo precedente (Età Prescolare), che si traduca in
marcate difficoltà di aggancio relazionale e in persistenti deficit della
comunicazione verbale e non verbale, comporta la necessità di lavorare sulle
aree già indicate dell’attenzione congiunta e della capacità di usare i simboli.
In tali situazioni, peraltro, il livello cognitivo risulta abitualmente deficitario.
Relativamente alle strategie di intervento, considerando l’età e l’entità della
compromissione funzionale, il lavoro, svolto in accordo ad un programma
“personalizzato”, comporta che gli operatori conoscano i principi generali di
tecnica di modifica del comportamento. Il lavoro, infatti, deve prevedere
l’adozione di tali tecniche, che vanno tuttavia inserite nell’ambito di una
dimensione affettivo-relazionale che permetta un apprendimento
comunicativo-sociale derivante non solo dagli esercizi di per se stessi, ma
dall’intero contesto. In tali situazioni il programma deve, inoltre, avvalersi
66
delle indicazioni derivanti dalla Comunicazione Aumentativa e Alternativa
(AAC)1.
Indipendentemente dalle strategie, gli obiettivi prioritari, in ordine
curricolare, sono rappresentati da:
1) guardare alla persona quando viene chiamato per nome,
2) guardare un oggetto quando viene nominato,
3) prestare attenzione a chi parla,
4) usare il contatto oculare per mantenere l’interazione,
5) imitare azioni semplici, suoni, parole,
6) attirare l’attenzione di qualcuno,
7) facilitare i comportamenti di richiesta,
8) dire no o fare gesti di diniego,
9) dire si o fare gesti di assenso,
10) salutare gli altri,
11) denominare le persone,
12) denominare le cose,
13) descrivere ciò che gli altri stanno facendo.
E’ evidente che in tali situazioni, gli apprendimenti accademici (lettura,
scrittura, calcolo), che comunque vanno sollecitati, assumono una valenza
“abilitativa” non di per se stessi, ma per le facilitazioni di tutta una serie di
funzioni ad essi associate (attenzione, percezione, controllo motorio, aderenza
a specifiche richieste, rinforzo intrinseco).
[B] nelle situazioni in cui il bambino mostri un soddisfacente livello
comunicativo-linguistico, che nella maggioranza dei casi coincide con un
livello cognitivo nei limiti o poco inferiore alla norma, la variabile critica nel
definire le caratteristiche dell’intervento è rappresentata dalla disponibilità
all’aggancio relazionale.
[B.1.] Quando, infatti, la compromissione dell’interazione sociale risulti
rilevante, il che si associa abitualmente con la presenza di comportamenti
fortemente disadattivi (vedi dopo), il programma deve prevedere un’adeguata
organizzazione delle attività; un’organizzazione che possa favorire la
partecipazione del bambino e stimolare la sua iniziativa. In tale contesto
emotivo-relazionale, vanno implementati sollecitazioni centrate sugli
apprendimenti accademici, sul linguaggio e più in generale sulla
comunicazione sociale.
[B.2.] Quando la compromissione dell’interazione sociale risulti contenuta,
va previsto un lavoro sulle competenze accademiche (lettura, scrittura e
calcolo), integrato da programmi centrati sul linguaggio (strutture
1 Uno dei più comuni sistemi di Comunicazione Alternativa è il Picture Exchange Communication
System (PECS). Il PECS viene utilizzato con soggetti autistici per stimolare l’iniziativa nella
comunicazione. Esso inizia con l’insegnare al bambino ad utilizzare la rappresentazione pittorica
di un oggetto o di un evento per far comprendere all’altro ciò che gli interessa. Il metodo prevede
progressivamente di insegnare al bambino la discriminazione di simboli e succesivamente la
capacità di metterli insieme per formare delle “frasi” (Frost et al., 1994). Gli utilizzatori del
metodo sostengono che esso non “blocca” l’emergenza del linguaggio verbale, ma anzi, quando
questa sia una competenza possibile, la facilita (Carbone, 2000).
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grammaticali, componente narrativa del linguaggio e pragmatica) e più in
generale sulla cognizione sociale. Si tratta, in pratica, di aiutare il bambino a
“capire” e conoscere le regole che definiscono i rapporti interpersonali e più
in generale le situazioni sociali.
In termini curricolari gli obiettivi da perseguire sono i seguenti:
♦ facilitare la consapevolezza delle intenzioni, delle preferenze e delle
esperienze altrui;
♦ facilitare la capacità di raccontare le proprie esperienze relative ad eventi
passati e futuri, fornendo nel contempo informazioni sufficienti per
l’ascoltatore;
♦ sviluppare l’abilità di mantenere e di modificare il tema di conversazione
secondo la prospettiva dell’ascoltatore (per es., stimolarlo a prendere
coscienza delle preferenze, dello stato emotivo, delle conoscenze di base
di chi ascolta);
♦ sviluppare l’uso del linguaggio per mediare e risolvere conflitti e/o
divergenze di opinioni
♦ sviluppare l’uso del linguaggio per esprimere sentimenti ed empatia con
gli altri;
e per quel che riguarda gli aspetti linguistici:
♦ facilitare l’uso di linguaggio più avanzato per esprimere le differenze di
significato (per es., le congiunzioni e le proposizioni subordinate);
♦ incoraggiare l’acquisizione di convenzioni verbali per iniziare le
interazioni, per interagire a turno e per terminarle;
♦ incoraggiare l’acquisizione dei segnali non verbali e paralinguistici per
rinforzare le intenzioni sociali (per es., lo sguardo, la posizione del corpo,
il volume della voce)
♦ aumentare l’abilità di interpretare ed usare il linguaggio in modo flessibile
secondo il contesto sociale e i segnali non verbali dell’interlocutore (per
es., parole con significati molteplici, linguaggio figurativo, sarcasmo)
AREA DEGLI INTERESSI E DELLE ATTIVITÀ
In questa fascia di età i “sintomi” appartenenti al terzo elemento della triade
dell’Autismo assumono particolare rilevanza e spesso interferiscono
massivamente sul lavoro finalizzato a favorire l’emergenza di competenze nelle
altre aree funzionali. Può trattarsi di stereotipie, dedizione assorbente ad interessi
bizzarri, condotte auto- e/o eteroaggessive.
Il “come” agire dipende ancora una volta dal livello di funzionamento generale
del soggetto.
[A] Nelle situazioni in cui persiste una marcata compromissione funzionale nelle
aree della socialità, della comunicazione e delle funzioni cognitive, vanno
considerate due possibilità.
[A.1.] La prima possibilità prevede che molti dei comportamenti disadattivi
rilevati sembrano assumere una funzione comunicativa: essi, cioè, esprimono
una situazione di forte attivazione emotiva di segno negativo (disagio) o di
segno positivo (euforia). É evidente che in questi casi il lavoro terapeutico è
finalizzato ad “insegnare” al bambino forme espressive maggiormente
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congruenti ed esplicite, che possano peraltro aumentare in lui la
consapevolezza “di capire e di farsi capire”. Considerando l’età e l’entità
della compromissione funzionale, le strategie da prendere in considerazioni
devono ispirarsi ai principi dell’ABA e della AAC.
[A.2.] La seconda possibilità è rappresentata dalle situazioni in cui si realizza
il carattere ripetitivo e perseverante tipico del funzionamento mentale di tipo
autistico (= dedizione assorbente ad un interesse e/o ritualizzazione di
un’attività). In tali situazioni il “come” agire non è individuabile in un
intervento esclusivamente centrato sul comportamento in questione, ma più in
generale in un’adeguata organizzazione del setting, che preveda
l’introduzione di sollecitazioni alternative in grado di interrompere il circuito
perseverante ed autosostenentesi, per ridirezionare l’attenzione sul nuovo
stimolo. La scelta delle sollecitazioni alternative deve avvenire per “prova-ederrore”
e quando individuato lo stimolo rispondente allo scopo devono essere
create su di esso variazioni sul tema per mantenere una flessibilità degli
schemi mentali.
[B] Nelle situazioni in cui il livello comunicativo-linguistico risulti nel complesso
soddisfacente, il terzo elemento della triade sintomatologica si realizza
generalmente attraverso una dedizione adsorbente a particolari interessi o la
ritualizzazione di particolari attività. Il livello di sviluppo comporta che tali
atipie si configurino, in effetti, come contenuti ideativi perseveranti. Il
“come” agire può in questi casi avvalersi del canale verbale per proporre al
bambino contenuti ideativi diversificati o per favorire, quando possibile, una
ristrutturazione del campo cognitivo.
In tutti i casi, quando i comportamenti disadattivi assumono particolare rilevanza
va presa in considerazione l’opportunità di un trattamento farmacologico secondo
le indicazioni riportate nella specifica Sezione.
3) La Scuola
La scuola rappresenta uno spazio privilegiato nel progetto terapeutico, in quanto
oltre a favorire gli apprendimenti accademici (lettura, scrittura, calcolo) permette
di realizzare una parte di quel più generale programma finalizzato al
miglioramento dell’interazione sociale, all’arricchimento della comunicazione
funzionale ed alla diversificazione degli interessi e delle attività. Peraltro, la
presenza dei coetanei rende l’ambiente scolastico il palcoscenico naturale, in cui il
soggetto può generalizzare acquisizioni e competenze favoriti in setting strutturati
in maniera terapeutica (terapia psicomotoria, logopedia, educazione strutturata in
un rapporto uno a uno)
[A] Nelle situazioni in cui persiste una marcata compromissione funzionale nelle
aree della socialità, della comunicazione e delle funzioni cognitive,
l’insegnante preposto alla presa in carico del soggetto deve “conoscere” le
principali strategie di approccio (principi dell’ABA, dell’AAC, etc.) e, con
l’aiuto degli operatori del Servizio, deve ad esse ispirarsi per la realizzazione
degli obiettivi curriculari individuati in accordo alle esigenze del caso.
[B] Nelle situazioni in cui il livello comunicativo-linguistico e cognitivo risultano
nel complesso soddisfacenti la variabile critica sul “come” agire risulta
determinata dalla disponibilità relazionale.
69
[B.1.] Nelle situazioni di marcata compromissione di aggancio relazionale,
abitualmente associate a comportamenti disadattivi, diventa determinante il
ruolo degli operatori del Servizio. Essi, infatti, d’accordo con gli operatori
scolastici devono definire un dispositivo spazio-temporale adeguato e
individuare le modalità affettivo-relazionali più idonee per favorire il lavoro
sugli apprendimenti accademici.
[B.2.] Nel caso in cui il bambino presenti anche sul piano relazionale una
soddisfacente possibilità di aggancio, il lavoro sugli apprendimenti
accademici deve essere, comunque, integrato dalla valorizzazione dei
momenti di interazione e scambio che la scuola solo può fornire per
l’arricchimento della cognizione sociale. In questa prospettiva, risultano
particolarmente utili gli incontri con gli operatori del Servizio nell’ambito dei
quali essi possano illustrare agli insegnanti obiettivi prioritari del progetto.
In termini curricolari gli obiettivi da perseguire sono quelli precedentemente
indicati:
♦ facilitare la consapevolezza delle intenzioni, delle preferenze e delle
esperienze altrui;
♦ facilitare la capacità di raccontare le proprie esperienze relative ad eventi
passati e futuri, fornendo nel contempo informazioni sufficienti per
l’ascoltatore;
♦ sviluppare l’abilità di mantenere e di modificare il tema di conversazione
secondo la prospettiva dell’ascoltatore (per es., stimolarlo a prendere
coscienza delle preferenze, dello stato emotivo, delle conoscenze di base
di chi ascolta);
♦ sviluppare l’uso del linguaggio per mediare e risolvere conflitti e/o
divergenze di opinioni
♦ sviluppare l’uso del linguaggio per esprimere sentimenti ed empatia con
gli altri;
e per quel che riguarda gli aspetti linguistici:
♦ facilitare l’uso di linguaggio più avanzato per esprimere le differenze di
significato (per es., le congiunzioni e le proposizioni subordinate);
♦ incoraggiare l’acquisizione di convenzioni verbali per iniziare le
interazioni, per interagire a turno e per terminarle;
♦ incoraggiare l’acquisizione dei segnali non verbali e paralinguistici per
rinforzare le intenzioni sociali (per es., lo sguardo, la posizione del corpo,
il volume della voce)
♦ aumentare l’abilità di interpretare ed usare il linguaggio in modo flessibile
secondo il contesto sociale e i segnali non verbali dell’interlocutore (per
es., parole con significati molteplici, linguaggio figurativo, sarcasmo)
III.3. INDICAZIONI DI TRATTAMENTO PER L’ETA’ ADOLESCENZIALE
Con l’adolescenza molti comportamenti possono subire un drastico
miglioramento, mentre altri possono peggiorare notevolmente. Come per tutti gli
adolescenti, anche i bambini con autismo crescendo fanno i conti con le difficoltà
70
di adattamento al corpo che cambia, alla sessualità emergente, alle trasformazioni
nei processi di pensiero e nelle capacità di osservazione e valutazione di sé e del
mondo circostante. Le tensioni e il senso di confusione che accompagnano lo
sviluppo puberale, possono determinare nell’adolescente autistico un incremento
dell’isolamento, di comportamenti stereotipati o la comparsa di aggressività. Allo
stesso tempo, per la maggiore sensibilità agli aspetti di confronto sociale che la
fase di sviluppo comporta, l’adolescente con autismo, soprattutto se meno
compromesso dal punto di vista cognitivo, può fare i conti per la prima volta con
la consapevolezza delle proprie differenze rispetto ai coetanei (mancanza di amici,
di interessi condivisibili, di progetti per il futuro). Questo aspetto può far
emergere disturbi dell’umore, che necessitano spesso di un trattamento specifico.
Va considerato che la variabilità espressiva di queste complesse dinamiche è tale
che non possono essere fornite indicazioni prestabilite, ma bisogna
necessariamente far ricorso a programmi personalizzati.
IV. FARMACOTERAPIA
Al momento la letteratura è concorde nell’affermare che non esistono farmaci
specifici per la cura dell’autismo (attivi cioè sul disturbo dello sviluppo in sé).
Pertanto, l’approccio farmacologico ha valenza sintomatica, nel senso che i
farmaci possono essere usati su alcuni aspetti comportamentali associati con
frequenza all’autismo (iperattività, inattenzione, compulsioni e rituali, alterazioni
dell’umore, irritabilità, disturbi del sonno, auto- e etero-aggressività), oltre che nel
caso di una sindrome epilettica.
In linea generale gli obiettivi di un trattamento farmacologico devono essere:
• il miglioramento della qualità della vita del bambino e della sua famiglia;
• la facilitazione dell’accesso ai trattamenti non medici;
• il potenziamento degli effetti dei trattamenti non medici;
• la prevenzione di comportamenti auto e etero-aggressivi;
• il trattamento di manifestazioni collaterali e associate in comorbidità.
Non avendosi ancora dati sufficienti su trattamenti prolungati in età evolutiva,
l’indicazione all’utilizzo del farmaco é quella di impiegarlo all’interno di cicli
terapeutici definiti, con l’obiettivo di intervenire sulle fasi di acuzie o
recrudescenza di sintomi particolarmente invalidanti, o con l’obiettivo di facilitare
la mobilizzazione del quadro in alcune fasi critiche dello sviluppo del bambino,
analogamente a quanto si fa per altri interventi terapeutici.
La molteplicità fenomenica del disturbo autistico e le scarse conoscenze circa la
patogenesi di tale disturbo giustificano i molteplici tentativi terapeutici con
sostanze farmacologicamente anche molto diverse tra di loro, di cui si è cercato di
volta in volta di sfruttare l’attività specifica su un sintomo. Le indicazioni del
farmaco non devono però basarsi solo sui comportamenti o sintomi, ma devono
prendere in considerazione i diversi nuclei psicopatologici. Il trattamento
farmacologico deve quindi essere preceduto da una attenta analisi funzionale del
disturbo, che evidenzi i nuclei bersaglio, che possono essere molto diversi nei vari
soggetti anche con sintomatologia apparentemente sovrapponibile.
71
Bisogna inoltre tener presente che le risposte ai farmaci sono molto differenziate
nei singoli casi, e su queste influiscono anche l’età cronologica, il funzionamento
cognitivo e eventuali componenti neurologiche conclamate.
La scelta di un farmaco non deve mai essere l’unica opzione nel trattamento di
questi disturbi: il farmaco deve essere inserito in un contesto terapeutico globale e
le sue finalità, come anche gli eventuali effetti collaterali, devono essere
chiaramente spiegate ai genitori (consenso informato). Occorre inoltre
intensificare la frequenza dei controlli nel corso del trattamento farmacologico.
E’ da ricordare l’inopportunità di basare il giudizio sulla efficacia di un farmaco
su pochi casi o su una casistica di adulti.
Al momento non c’è un farmaco che si sia dimostrato efficace in tutti i casi di
autismo e resta ancora da provare la reale incidenza del trattamento farmacologico
sulla storia naturale del disturbo autistico.
Tra i più usati, e più ampiamente studiati, sono:
Neurolettici (Aloperidolo, Clorpromazina, Risperidone, Pimozide) riducono
l’agitazione, l’aggressività, i comportamenti ripetitivi e, conseguentemente,
agiscono sulla chiusura relazionale. Tra i vecchi neurolettici l’Aloperidolo è il
farmaco più studiato. La Pimozide produce un discreto effetto su manifestazioni
comportamentali e condotte di ritiro. E’ segnalata maggiore risposta nei soggetti
con maggiore componente di apatia ed anergia. Sono necessari controlli
cardiologici. I principali effetti collaterali dei neurolettici tradizionali sono:
sedazione, irritabilità, manifestazioni distoniche o parkinsoniane, e, a più lungo
termine, acatisia, comparsa di discinesie extrapiramidali, in particolare al
momento della sospensione. Per tale motivo il loro impiego dovrebbe essere
effettuato con cautela. Sono da usarsi come farmaci di seconda scelta, con uso
limitato a condizioni di marcato eccitamento comportamentale, al dosaggio più
basso efficace. E’ opportuno inoltre valutare una loro sospensione al di fuori delle
fasi acute.
Sono in aumento le indicazioni all’utilizzo dei neurolettici atipici, sia nelle forme
resistenti ai neurolettici tradizionali, sia come intervento di prima scelta. Hanno
un’incidenza di effetti extrapiramidali molto inferiore e azione positiva nel ritiro
relazionale, l’apatia e l’anergia. Tra i nuovi il Risperidone (antagonista sia
serotoninergico che dopaminergico) è attualmente considerato tra i più efficaci,
ma gli studi sono per ora poco numerosi. Sembra efficace sui disturbi del
comportamento (aggressività, irritabilità, agitazione), sui comportamenti
stereotipati e, in minor grado, sul deficit interattivo. Effetto collaterale importante
è l’aumento di peso. L’Olanzapina presenta azione antagonista verso i recettori
della serotonina e della dopamina. I pochi studi, ancora in corso, sul suo impiego,
riferiscono miglioramenti nella regolarità del ritmo sonno-veglia e nel controllo
dell’aggressività.
Gli Inibitori Selettivi del Re-uptake della Serotonina (SSRI). Gli SSRI, quali
la Fluoxetina, la Sertralina, la Paroxetina o la Fluvoxamina, incidono sui sintomi
depressivi e ansiosi e sui comportamenti ossessivi e ritualistici presenti
nell’autismo. Sono inoltre frequentemente utilizzati per contrastare l’isolamento,
la chiusura relazionale, disinibire il comportamento, ridurre i disturbi
comportamentali (autoaggressività – stereotipie), rendere il bambino più
disponibile alle modificazioni ambientali o nelle routine quotidiane. La positività
della risposta è spesso correlata con una familiarità per disturbo dell’umore. Sono
72
inoltre indicati nelle forme depressive associate all’autismo. Effetti collaterali
avversi, poco comuni, sono l’aumento dell’irritabilità, l’ansia, l’insonnia,
l’agitazione. La Fluoxetina è la più studiata e utilizzata fin dall’età prescolare;
contribuisce alla riduzione delle stereotipie e dei sintomi depressivi, migliorando
l’umore e aumentando il livello di funzionamento; può indurre un aumento
dell’ansia, dell’irritabilità e dei disturbi comportamentali, oltre alla riduzione
dell’appetito.
La Clorimipramina è indicata anche nel ridurre comportamenti ossessivi e
ripetitivi, oltre che l’autoaggressività; è più adatta alla somministrazione in
pazienti adulti, piuttosto che in bambini; può indurre convulsioni, oltre che
incremento dell’ansia e irritabilità.
La Clonidina, agonista dei recettori-2 adrenergici, si è dimostrato efficace nel
controllo delle crisi di rabbia e attiva nei disturbi del sonno, ma andrebbe
utilizzata nell’adolescente e a dosaggi non ipotensivi. Dopo qualche mese si
sviluppa tolleranza al farmaco. La scarsa sperimentazione ne fa sconsigliare
l’utilizzo come farmaco di prima scelta.
Anche la Melatonina è usata nei disturbi del sonno associati all’autismo. La
Melatonina ha contribuito in alcuni casi inoltre al miglioramento dell’umore, alla
diminuzione delle stereotipie anche per periodi discretamente lunghi dopo la
sospensione del farmaco, senza che si siano manifestati rilevanti effetti collaterali.
Carbamazepina ed Acido Valproico, meno frequentemente il Litio, sono usati
come stabilizzanti del tono dell’umore, indicati in presenza di comportamenti
impulsivi, eteroaggressivi, grave iperattività, in quadri con sospetto di sindrome
bipolare e/o familiarità per depressione o disturbo bipolare.
Terapie vitaminiche ed altri supplementi nutrizionali. Si tratta di una serie di
proposte che hanno avuto un grosso clamore negli anni passati. Il presupposto
teorico è l’azione su un supposto disturbo metabolico nucleare, e la possibilità di
stimolare l’attività cerebrale, dal momento che molte vitamine sono importanti
coenzimi utilizzati all’interno delle cellule cerebrali. Sono state effettuate
sperimentazioni relative al trattamento con vitamina B6, associata o meno a
magnesio, e dimetilglicina e sono in corso lavori sulla secretina, peraltro non
ancora sufficientemente validati. Attualmente l’efficacia terapeutica é molto
criticata, anche per le carenze metodologiche di tali studi. Sono invece ben
descritti i rischi tossici, quali neuropatie sensoriali, di trattamenti incongrui con
iperdosaggi vitaminici.
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